TRIESTE – L’informazione non è un algoritmo. E, soprattutto, il giornalismo non è generato dall’Intelligenza artificiale (Ia). In questi mesi si sta parlando della crisi dei social media, dell’evoluzione dell’Ia, delle mirabolanti imprese di ChatGpt, mentre si presta poca attenzione alla crisi dell’informazione in generale. Una crisi che viene da lontano e che negli anni non è stata presa in giusta considerazione, forti dell’ebrezza vissuta dalla popolarità digitale fornita dalle piattaforme dei social network.
Temi che hanno spinto Andrea Bulgarelli, giornalista, comunicatore e coordinatore di Figec Cisal per il Friuli Venezia Giulia e don Ettore Malnati, teologo, docente e sacerdote molto attento ai temi della società a una serie di riflessioni di cui pubblichiamo un primo estratto.
Andrea Bulgarelli
La quotidianità ci pone di fronte a realtà virtuali che dopo aver fatturato migliaia di miliardi, parte dei quali a scapito dell’informazione tradizionale, si trovano in una crisi d’identità e di fatturato che sta generando decine di migliaia di licenziamenti. Questo anche perché dopo qualche anno ci si è resi conto di come funziona il meccanismo alla base di una comunicazione unidirezionale, generata attraverso algoritmi che “spiano” le nostre attività per fornirci risposte e prodotti da acquistare in linea con i nostri gusti.
Spostare in rete gran parte delle interazioni esistenti a livello mondiale, ha messo nelle mani di pochi la gestione dell’opinione pubblica e l’influenza dei sistemi collettivi di comunicazione. Sembra quasi illogico che un articolo o servizio di apertura di una testata tradizionale sia dedicato alla quotidianità personale di persone che vengono definite “influencer”, ovvero coloro i quali agiscono per convincere gli altri. Persone che vivono e creano il loro reddito personale con l’obiettivo di condizionare le scelte altrui, magari promuovendo un determinato prodotto senza scriverlo e dirlo in maniera esplicita. E una volta acquisita la fiducia di chi li segue, abbiamo scoperto che gli “influencer” iniziano a passare dall’aspetto commerciale ai contenuti che loro ritengono socialmente corretti.
È ormai indubbio che esiste una carenza normativa che penalizza l’informazione e i media professionali a favore del proliferare di cosiddetti opinionisti ed esperti, spesso senza un riscontro formativo e professionale, che si esprimono sul web senza dover rispettare i limiti e le norme a cui è sottoposta l’informazione.
don Ettore Malnati
È sotto gli occhi di tutti la crisi dell’informazione proprio dal punto di vista professionale ed etico. Ciò che ha dato un “colpo” non indifferente al comparto tradizionale dell’ informazione sia cartacea che radiotelevisiva è stata appunto la contagiosa “febbre” del digitale, nutrito proprio dalla gestione dei social network che hanno imbarcato un certo monopolio di messaggi acritici e gestiti spesso non da un progetto educativo o di conoscenza qualificante in ragione culturale o sociale, bensì “provocati” da una informazione e di “prurito” scandalistico o acritico producendo quel senso superficiale o di emotività capace di catturare reazioni prima del doveroso discernimento.
Tutto ciò è ormai entrato nel tessuto della quotidianità dell’homo quidam, che è sempre più dipendente – a partire dai ragazzi sino agli adulti – di questo orientamento che sembra portarci più che alla umanizzazione delle conoscenze e delle sfide piuttosto ad una robotizzazione del pensare e del relazionarsi. In tutta questa rivoluzione, che pone l’informazione alla mercé dei cosiddetti influencer con il pericolo concreto di un certo monopolio, manca anche una doverosa ma saggia normativa che tuteli la professionalità e la pluralità socio-culturale dei social.
Andrea Bulgarelli
Capita che la reputazione e l’onorabilità di una persona vengano compromesse in maniera virale quando una determinata notizia viene diffusa.
I mezzi di informazione a volte riferiscono di avvenimenti di cronaca e giudiziari. Ne consegue che l’opinione pubblica identifica a priori i colpevoli. Nonostante la presunzione di innocenza, la condanna dell’opinione pubblica è più incisiva grazie alla diffusione digitale che fa della crossmedialità un macigno contro il quale è impossibile difendersi. Le conseguenze sono immediate con difficoltà personali e familiari che arrivano a condizionare la vita delle persone anche per lunghi anni, in attesa di una sentenza che potrebbe essere di proscioglimento con l’assoluzione dell’imputato. E solo dopo la sentenza una persona può far valere il diritto all’oblio e deve farlo cercando in rete gli articoli incriminati per segnalarli uno ad uno al motore di ricerca del web e alle piattaforme digitali, chiedendone la cancellazione e sperando di ricevere un riscontro. Una risposta che, invece, certamente verrebbe data alla magistratura nel caso si procedesse d’ufficio dopo ogni sentenza.
Il diritto all’oblio diventa quantomai fondamentale proprio ora che sistemi di Intelligenza Artificiale intervengono nella creazione di informazioni attraverso la ricerca e la sintesi di quanto pubblicato online. Non dimentichiamo che l’Ia si muove attraverso software creati da persone con le proprie identità, appartenenze e interessi anche politici: chi garantisce che questi software siano in grado di dare eguale valore alle diverse componenti della nostra società? Che regole sono poste a tutela della democrazia e della giusta rilevanza delle idee di tutti noi? C’è il concreto rischio del condizionamento artificiale del pensiero della collettività, in particolare durante le campagne elettorali. Nei mesi che anticipano le elezioni, ad esempio, i media devono trattare con il “bilancino” la presenza di candidati e politici, mentre i social non sono sottoposti a nessun controllo.
don Ettore Malnati
Di fronte a fatti di cronaca soprattutto nei delitti, la stampa e i sistemi di intelligenza artificiale prima di ogni valutazione di colpevolezza pongono in prima pagina il loro “verdetto” e questo rimane nell’opinione pubblica già segnata secondo quanto questo o quel giornale ha scritto e ha fatto intendere.
Questa purtroppo, che passa come il diritto di cronaca, viene a ledere quel principio che già era contenuto nella Magna Carta di Giovanni Senza Terra, e cioè che a nessun uomo libero poteva essere imputata colpa alcuna prima che questa fosse provata. E la prova provata deve poterla produrre il giusto tribunale. Fino a quel momento ad ogni persona spetta l’innocenza.
Il “prurito” di fare colpo e “vendere” l’opinione di questa o quella testata è una tentazione che sfocia poi nel disonesto profitto.
Troppo spesso si sacrifica l’onorabilità di questa o quella persona sia per primeggiare acriticamente nel dare notizie che per lucrare sfruttando una curiosità morbosa che nulla ha a che fare con il diritto dell’ informazione.
Non si deve barattare la deontologia per uno scoop o gossip. È come – biblicamente – “barattare la primogenitura con un piatto di lenticchie”.
Se poi il caso della magistratura prevede un’altra valutazione hai voglia di riportare il verdetto contrario all’opinione difforme e quindi falsa. Ma come si può retrocedere dall’opinione presuntuosa senza lasciare un’ombra di sospetto?
Più di qualcuno si è spinto sino a togliersi la vita, mentre il perbenismo di prima pagina difficilmente si interroga e aggiusta il tiro.
Andrea Bulgarelli
C’è poi il tema dei minori e della loro tutela. Chi interviene affinché non vi sia il condizionamento dei minori attraverso messaggi pubblicitari o socialmente rilevanti, costruiti ad hoc da chi cerca di influenzare le persone per tornaconti commerciali? Non va scordato che il traffico generato da chi utilizza per fini commerciali il proprio messaggio genera fatturato e redditività. Quali sono i controlli che vengono realizzati su questo sistema di promozione commerciale che ormai pervade ogni aspetto della nostra vita? Che norme sono poste a tutela dei minori attraverso le attività svolte sui social media, quando per i media tradizionali tutto ciò è sottoposto a regole molto chiare a garanzia di chi è maggiormente influenzabile? Tutte domande a cui si dovrebbe dare delle risposte con regole certe e uniformi in grado di valere allo stesso modo per media (dove già esistono limitazioni poste nell’interesse e a tutela dei giovanissimi) e social network.
don Ettore Malnati
I social sono certo i più frequentati “amici” dei minori. Se prima della pandemia questo era già una preoccupazione, oggi è un serio problema che tocca la psicologia delle relazioni dei ragazzi.
Ciò che ci deve preoccupare, oltre all’impoverimento delle reazioni reali che sono sempre meno ricercate dai ragazzi, se non attraverso i social, sono certo i più frequentati amici dei minori.
Se prima della pandemia questo era già una preoccupazione oggi è un serio problema che tocca la psicologia delle relazioni dei ragazzi.
Ciò che ci deve preoccupare, oltre all’impoverimento delle reazioni reali che sono sempre meno ricercate dai ragazzi se non attraverso proprio la mediazione dei social, è anche l’incitamento a usare telefonini e iPad per giochi pericolosi che umiliano e penalizzano quei loro coetanei presi di mira da un bullismo sadico e preoccupante: vi sono poi quei messaggi pubblicitari costruiti ad hoc che influenzano e inducono alla violenza.
In questo campo, che preoccupa chi è seriamente impegnato nel settore educativo soprattutto degli adolescenti, sembra esserci anche una speculazione economica che prescinde dal preoccuparsi della incisività educativa e ciò a puro vantaggio redditizio.
È un impegno della famiglia e della società fare in modo che si abbiano a tutelare i minori nella loro crescita, pur rispettando un criterio di conoscenza “allargata” ma nella dimensione etica per i soggetti e la collettività. (giornalistitalia.it)