BARI – Una democrazia liberale non è tale se, al suo interno, coesistono solo i tre canonici poteri indicati dal barone di Montesquieu (1689-1755): legislativo, esecutivo, giudiziario. Una democrazia liberale si distingue da una democrazia illiberale o da un regime autocratico, solo se favorisce la libera informazione, dal momento che anche nelle dittature possono convivere i tre poteri classici codificati dal grande pensatore francese. Uno Stato democratico che dovesse ignorare l’esigenza di garantire la libertà di stampa e l’opera degli organi di informazione sarebbe uno Stato contraddittorio con i suoi stessi princìpi costituzionali. Non a caso i padri costituenti della Repubblica italiana hanno riservato un posto d’onore (articolo 21 della Carta fondamentale dello Stato), alla libertà di pensiero e espressione, aggiungendo che «la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
La Gazzetta del Mezzogiorno, da settembre 2018, è di fatto sotto il controllo dello Stato. Lo è da quando il patrimonio di Mario Ciancio Sanfilippo, editore (socio di maggioranza al 70%) del giornale, è stato sottoposto a un provvedimento di sequestro nell’ambito di un’inchiesta in cui l’imprenditore siciliano è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.
Avevamo sollecitato tempi brevi nella definizione di questa vicenda processuale, sia perché è doveroso che la giustizia abbia sempre tempi rapidi sia perché il caso avrebbe potuto generare contraccolpi per la stessa esistenza del nostro giornale (finito in amministrazione giudiziaria). Infatti, come ha più volte osservato Raffaele Cantone, già presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, sono pochissime le aziende che, sottoposte a provvedimenti di di tal guisa, riescono a sopravvivere.
Ma il giornale, non è la scoperta dell’America, è un’azienda particolare. Metà impresa metà istituzione. Sono rare le aziende editoriali in grado di produrre utili, non soltanto in Italia, ma in tutto il mondo. Uno, perché non c’è settore più esposto al rischio dell’inatteso. Due, perché la concorrenza sleale che subisce l’editoria meriterebbe ben altra attenzione dagli organi di controllo. Basti pensare alla micidiale offensiva da parte della pirateria editoriale che ruba il lavoro delle testate giornalistiche senza pagare pegno e senza lasciare traccia, ovviamente neppure agli inserzionisti pubblicitari. Cosicché chi confeziona un giornale rischia, mentre chi lo ruba fa festa.
Una volta si diceva che il giornale costituisce una voce passiva di un bilancio attivo. Forse si esagerava, forse non era giusto, ma riesce difficile assimilare il valore di un giornale al valore di un’altra intrapresa produttiva, e non solo perché la stampa è salvaguardata in Costituzione mentre le altre iniziative economiche no, il che significa che se c’è un settore strategico per uno Stato a democrazia liberale questo si chiama informazione. Ma riesce difficile assimilare il giornale ad un’altra attività ordinaria anche per questo semplice motivo: il giornale è un’istituzione del territorio, è il suo sindacato, la sua agorà, il suo difensore civico, la sua finestra sulla realtà circostante. Non a caso i territori più floridi (sul piano economico e culturale) in Italia e nel mondo, sono quelli in cui si vendono più quotidiani.
Si può obiettare: ci sono i nuovi strumenti della comunicazione, la Rete, i social network. Non scherziamo. I nuovi mezzi mediatici fanno comunicazione, non informazione. E tra la comunicazione e l’informazione passa la stessa differenza che c’è tra il verosimile e il vero, tra l’emozione e la riflessione, tra la propaganda e l’oggettività. L’esempio del coronavirus, con l’isteria di massa provocata in larga parte dal perverso connubio tra rete internet e reti tv, è l’ultimo in ordine di tempo. Internet si ispira e si richiama a Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che non a caso è il simbolo di una società totalitaria, la stampa invece evoca Voltaire (1694-1778), portabandiera di una concezione filosofica e politica liberale. «Un tempo – scrive il giurista Mauro Barberis – per impadronirsi del potere, le teste calde ricorrevano a sanguinosi colpi di Stato. Ora non c’è più bisogno: c’è Facebook. Intolleranza, fanatismo, servilismo, processioni per farsi un selfie con il potente di turno. Tutto questo non fa bene alla democrazia. A occhio, anzi, direi che la uccide».
Condividiamo la tesi di Barberis: Internet sta uccidendo la democrazia. Che può salvarsi solo aiutando e rafforzando, riscoprendo l’informazione seria, quella assicurata innanzitutto dal giornalismo tradizionale, a cominciare dai quotidiani.
E veniamo a noi. La Gazzetta del Mezzogiorno, dicevamo, di fatto oggi è di proprietà dello Stato. Lo è in quanto lo Stato detiene il 70% sequestrato a Ciancio (che è in attesa della sentenza sul processo a Catania). La Pop-Bari, che aveva finanziato l’acquisto della quota di minoranza ora in carico all’imprenditore Valter Mainetti, chiede a lui e agli altri possibili acquirenti le necessarie garanzie per finanziare il piano di rilancio del giornale, varato dopo tagli e sacrifìci per i dipendenti con l’obiettivo di essere ammessi al concordato.
I commissari della Banca Popolare di Bari giustamente fanno il loro dovere. Devono fare quadrare innanzitutto i conti. Ma – osserviamo noi – sarebbe paradossale che la Gazzetta rischiasse l’eutanasia proprio ora che i conti sono stati pressoché riportati in ordine, a colpi di accetta. Sarebbe paradossale che fosse addirittura lo Stato a staccare, sia pure indirettamente la spina, visto che ha avuto in proprietà la testata negli ultimi 18 mesi. Sarebbe altrettanto paradossale che il «delitto» si consumasse nell’area in cui opera la più grande banca del territorio in Italia. Cosa è più importante di un giornale nella difesa e tutela del territorio?
Non vogliamo forzare la mano ai vertici della Popolare di Bari, dove lo Stato è entrato ufficialmente con il Fondo Interbancario e il Mediocredito centrale. Ma può lo Stato rischiare che insieme con l’acqua sporca possa essere gettato via anche il bambino? Perché di questo si tratterebbe.
Ciò detto, chi scrive rilancia l’invito, già rivolto dal comitato di redazione della Gazzetta, all’imprenditoria nazionale, pugliese e lucana: il giornale è risanato, non è un colabrodo, ci sono tutte le condizioni perché possa ripartire, con i conti in ordine, nel segno della sua missione storica, quella di informare e sostenere il territorio, così come ha fatto per 133 anni. Alcuni imprenditori hanno manifestato interesse. Ringraziamo qui i presidenti di Confindustria Puglia (Domenico De Bartolomeo) e Confindustria Basilicata (Pasquale Lorusso) che hanno rivolto un appello ai loro associati.
Ma è una corsa contro il tempo. Bisogna fare presto.
Giuseppe De Tomaso
direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”
LEGGI ANCHE:
Gazzetta, come si uccide un giornale