TARANTO – In occasione di un convegno su Aldo Moro dagli anni tarantini al pensiero politico e istituzionale tenuto a Taranto il 16 marzo scorso, 45° anniversario del rapimento del presidente della Democrazia cristiana e del massacro della sua scorta, intervenendo in diretta telefonica da Roma, Maria Fida Moro, figlia primogenita dello statista pugliese, giornalista, senatrice nella X legislatura, aveva denunciato tre cose:
il 9 maggio, data dell’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse, è stato proclamato nel 2007 dal parlamento italiano “Giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”, ma proprio la famiglia Moro è stata esclusa dai risarcimenti economici previsti dalla legge 206 (due giorni dopo il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è intervenuto per assicurare che l’esclusione sarà rimossa); i terroristi godono di ampio spazio e ospitalità sugli organi di stampa, e soprattutto in televisione, mentre le vittime e i parenti delle vittime del terrorismo vengono silenziati; lei stessa, che pure avrebbe avuto qualche titolo per parlare, aveva cercato in vista del 16 marzo di far pubblicare una sua dichiarazione ma non era stata presa considerazione da giornali, tv e agenzie.
Ero presente in quel convegno come presidente di una associazione di ex alunni del liceo Archita di Taranto, a Moro intitolata perché di quel più che centenario istituto è stato lo studente più insigne, ed avevo ricordato nel mio saluto come, nei 55 giorni della prigionia, il mio giornale d’allora, la Gazzetta del Mezzogiorno, ancora diretto da un giornalista con la schiena dritta, Oronzo Valentini, fosse stato uno dei pochissimi (col quotidiano del Psi Avanti! e, solo in parte, Il Giorno e l’Osservatore Romano, oltre alla stampa di estrema sinistra, con Lotta Continua e il manifesto), non intruppati nel cosiddetto “fronte della fermezza”, sostenendo invece le ragioni della tutela della vita e della persona umana come preesistenti e prevalenti sulla rigidità ideologica della ragion di Stato.
L’ultima amarissima constatazione di Maria Fida Moro, con la quale ho avuto il privilegio di lavorare per alcuni mesi nella redazione romana della Gazzetta del Mezzogiorno, prima che il nuovo direttore, nominato dalla nuova società editrice che, proprio nei convulsi giorni del sequestro Moro, aveva rilevato la gestione della testata (che restava di proprietà del Banco di Napoli), la costringesse a dimettersi, mi ha riportato alla mente la denuncia che Moro fece del pericolo insito nelle concentrazioni editoriali.
Il 21 aprile Dc e Pci bocciano la proposta di Bettino Craxi di uno “scambio di prigionieri” con le Br, anche come provvedimento umanitario, mentre alcuni quotidiani scelgono di non pubblicare la lettera di Moro al segretario democristiano Benigno Zaccagnini resa nota dalla famiglia che l’ha ricevuta da un sacerdote amico. Moro si riferisce anche a questo episodio quando, nel memoriale ritrovato in via Monte Nevoso, scrive a proposito delle concentrazioni editoriali che allora iniziano a profilarsi (e che oggi, ahinoi, sono pienamente in atto, anche grazie a chiusure di redazioni, tagli di personale, utilizzazione massiccia di tecnologie per omologare l’informazione): «la stampa italiana costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza (…). Il Paese è così dominato da cinque o sei testate.
Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse questo è un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti su 23-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì».
Le organizzazioni di categoria dei giornalisti, a 45 anni di distanza da questa denuncia, così come sui terroristi in tv e le vittime e i parenti delle vittime silenziati, dovrebbero riflettere non poco. E ricercare soluzioni. (giornalistitalia.it)
Giuseppe Mazzarino