ROMA – Per sostenere Ceyda Karan e Hikmet Çetinkaya, entrambi editorialisti del quotidiano turco Cumhuriyet, torneranno in tribunale a Istanbul giovedì 21 gennaio per difendersi dall’accusa di aver “diffamato pubblicamente i valori religiosi di un segmento della società” e di “incitamento all’odio e all’inimicizia”.
L’accusa, per la quale rischiano fino a quattro anni e mezzo di carcere, era stata formulata dopo che, all’inizio dello scorso anno, il quotidiano aveva pubblicato le vignette del magazine satirico Charlie Hebdo, nella cui redazione in rue Nicolas Appert nel centro di Parigi due attentatori armati avevano fatto irruzione pochi giorni prima, il 7 gennaio, uccidendo 12 persone.
Alla prima udienza del processo, celebrata il 9 luglio in assenza dei due imputati che avevano chiesto inutilmente il rinvio per impegni professionali già fissati fuori Istanbul, erano presenti un centinaio di ricorrenti anche se sono 1280 in tutto le denunce presentate contro i due giornalisti.
La vignetta pubblicata era la prima copertina di Charlie Hebdo dopo l’attentato, quella che mostra il profeta Maometto triste con in mano un cartello con scritto “Io sono Charlie” e con la scritta “Tutto è perdonato”. Un’immagine “evidentemente” talmente blasfema da smuovere la sensibilità religiosa di tanti turchi. Eppure non si può non vedere la mano del governo dietro questa vicenda che poco ha a che fare con il sentimento religioso. Tra i querelanti, infatti, ci sono diverse persone molto vicine al presidente turco come Mustafa Varank (il suo braccio destro), Bilal Erdoğan (suo figlio), Berat Albayrak (suo genero), Sümeyye Erdoğan e Esra Albayrak (sue figlie).
Recep Tayyip Erdoğan è un novello sultano che non sopporta la stampa libera e detesta, soprattutto, quelli di Cumhuriyet che tante inchieste hanno pubblicato in questi mesi sulla torbida politica turca, non ultima quella sul coinvolgimento dei servizi segreti nazionali nel traffico di armi con la Siria e che è costata il carcere al direttore del quotidiano Can Dündar e al caporedattore della sede di Ankara Erdem Gül (entrambi in custodia cautelare dal 26 novembre).
Proprio Can Dündar, dalla sua cella a Silivri vicino a Istanbul, è riuscito nei giorni scorsi a far arrivare a Le Monde una lettera nella quale scrive: «Un grido per la libertà di espressione, una richiesta di aiuto venuta dall’inferno, quell’inferno creato per la stampa. La mano tesa di un giornalista arrestato per aver fatto il suo lavoro e che spera nella solidarietà dei suoi colleghi in tutto il mondo»
«Quando a novembre Reporter Senza Frontiere (Rsf) ha assegnato a Cumhuriyet, il quotidiano turco che dirigo, il premio Libertà 2015 alla cerimonia ho dichiarato: “Il mio ufficio ha due finestre, una si affaccia su un cimitero, l’altra sul tribunale. Sono i due luoghi più visitati dai giornalisti in Turchia. Dopo poco è apparsa anche una terza finestra: quella della prigione che mi attendeva”»
«Dopo aver pubblicato le foto che provavano il passaggio di camion, scortati dai servizi segreti turchi, che trasportavano armi dalla Turchia alla Siria, il presidente Erdoğan non ha negato, ma ha detto: “Questo è un segreto di Stato”, e mi ha minacciato: “Chi ha scritto questo articolo pagherà un caro prezzo”»
«Erdoğan odia la stampa libera e i social media che non può controllare. Durante un incontro ha sbottato: “Twitter sarà sradicato”, e l’ha fatto. La Turchia figura tra i paesi che più duramente censurano Internet: oltre 52mila siti sono stati vietati e il Paese si trova al 149° posto nella classifica mondiale per la libertà di stampa secondo il rapporto di Reporter senza Frontiere».
Che l’accusa a Ceyda Karan e Hikmet Çetinkaya sia strumentale e pretestuosa e sia da inserire in questo clima da caccia alle streghe lo dimostra la presenza del primo ministro turco Ahmet Davutoğlu alla marcia di protesta a Parigi dopo l’attentato a Charlie Hebdo. Quel giorno il volto rassicurante del baffuto premier turco era in bella vista insieme a quelli di altri capi di stato e di governo. Una politica volutamente bipolare, quella dell’Akp, il Partito islamico per la Giustizia e lo Sviluppo fondato dal presidente Erdoğan, che con la mano destra all’estero stringe quelle dei leader occidentali e con la sinistra nel proprio paese stringe il cappio intorno al collo alla stampa libera.
D’altronde sedere nei salotti buoni è di tutto vantaggio: l’ultimo ha la forma di tre miliardi di euro, quelli che l’Unione Europea ha promesso “inizialmente” ad Ankara per gestire l’emergenza migratoria. Il clima di pacatezza e collaborazione che il governo turco mostra all’estero non è certo quello che ha instaurato in casa.
Per capire cosa succede, ad esempio, nelle aule di giustizia turche basti dire che alla prima udienza nei confronti di Ceyda Karan e Hikmet Çetinkaya uno dei querelanti ha dichiarato alla corte che, in caso di assoluzione, siano almeno “consegnati a noi in modo che possiamo dar loro la giusta punizione”, dichiaraziane ritirata dopo che il giudice ha ricordato al querelante che tali parole potevano rappresentare un crimine (fonte agenzia di stampa privata Doğan).
Domenico Affinito