ROMA – Nell’inaugurare l’anno giudiziario della Cassazione, il presidente Giovanni Canzio ha scoperto l’acqua calda in casa propria, denunciando in alcuni pm “una sorta di spiccata autoreferenzialità nei rapporti con la narrazione mediatica”, una suggestione dei titolari di indagini a “tessere un dialogo con i media e tramite questi con l’opinione pubblica”.
Non da oggi, magistratura e forze dell’ordine, e non solo loro, hanno compiuto una mutazione genetica di 360 gradi nella cultura delle relazioni pubbliche, ieri zitti e mosca sfidando l’abilità dei cacciatori di notizie, oggi arbitri dell’indotto dell’informazione grazie alla forza tecnologica dell’autarchia informatica.
Ormai la comunicazione ufficiale, non certo brillante per imparzialità e neutralità, controlla, gestisce e indirizza le fonti di informazioni diffidando gli incauti giornalisti ad avvicinarsi se non a loro rischio e pericolo (intimidazioni e querele temerarie). Molti valorosi cronisti sono costretti ad arrampicarsi sugli specchi del gran vociare, a spremere fino in fondo le risorse della propria esperienza e della propria professionalità per strappare mezze-notizie e brandelli di verità, per raccogliere e interpretare l’attendibile dai tam-tam delle conferenze-stampa, dalla ridda di dichiarazioni e di controdichiarazioni diffuse ad arte, dalla sequela di smentite e di contro smentite.
La strada maestra era è e resta l’art. 2 della legge sull’Ordine sulla lealtà dei rapporti fiduciari dei cronisti con le fonti di informazione.
Romano Bartoloni
Segretario Sindacato Cronisti Romani