Il procuratore di Catanzaro e le nuove direttive del Governo sui procedimenti penali

Gratteri: “Ma il bavaglio non inquieta i giornalisti?”

Nicola Gratteri (Foto Marco Costantino/Giornalisti Italia)

CATANZARO – La scusa è sempre la stessa. Basta una lettera con determinate raccomandazioni o qualche direttiva da applicare spedite dal cuore dell’Europa. Bruxelles comanda, Roma esegue. È stato così nel 2011 all’alba della stagione dell’austerity e della spending review che, nel silenzio assordante del mainstream, ha portato allo smantellamento della sanità e del welfare.
L’ergastolo non piace all’Europa che si definisce “garantista”? A Roma si lavora per cancellarlo. E si fa presto ad affibbiare il termine di “giustizialista” a chi, invece, lo vuole. Un po’ come si faceva a scuola segnando sulla lavagna col gesso i buoni e i cattivi. I consigli dell’Europa non finiscono qui.
C’è da applicare un’altra direttiva. Risale al 2016 e ruota intorno alla “principio di non colpevolezza”, per intenderci “il principio di innocenza” in nome del quale adesso si punta a imbavagliare la libera informazione. Detto e fatto. Il Consiglio dei ministri approva in via definitiva il decreto legislativo che rafforzerebbe questo principio. Il provvedimento prevede che «la diffusione di informazioni sui procedimenti penali è consentita soltanto quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre rilevanti ragioni di interesse pubblico».
C’è di più. «è fatto divieto di assegnare ai procedimenti pendenti denominazioni lesive della presunzione di innocenza». In sostanza, verranno limitate le conferenze stampa su arresti di ’ndranghetisti e colletti bianchi. Quindi, noi giornalisti dovremmo accontentarci dei comunicati stampa ufficiali, senza andare oltre, senza spulciare carte e poter scrivere in base alla nostra testa. Un bavaglio ai pm? Forse, ma certamente lo è per la libera stampa, che non lavora con comunicati, ma le notizie se le cerca e va sempre oltre nel rispetto dei principi di continenza, di pertinenza e nel massimo rispetto del principio di non colpevolezza, perché noi giornalisti non siamo né avvocati, né giudici, né magistrati, né giustizialisti, né garantisti. Raccontiamo i fatti processuali, punto.
Violare il principio di innocenza dando nomi alle indagini? Un’interpretazione un po’ forzata, perché dare un nome alle indagini non fa altro che rispecchiare le indagini stesse, ovvero la tesi degli inquirenti che, in uno stato di diritto, è diametralmente opposta a quella della difesa e per diventare un fatto deve passare al vaglio di più giudici: gip, riesame, gup ecc.

Marta Cartabia

Forse la Cartabia dimentica che quando magistrati e investigatori non attribuivano alcuna denominazione alle indagini o alle operazioni di polizia,  ci pensavano i giornalisti a farlo. A Catanzaro sono stati i giornalisti ad attribuire ad alcune inchieste i termini “Compravendita di voti”, “Catanzaropoli”, “Multopoli”. E questi sono solo tre esempi tra i tanti. E le conseguenze a tutto questo quali potrebbero essere? Le spiega un altro magistrato antimafia, Nino Di Matteo: «Potranno parlare i parenti di Riina e Provenzano, non lo potranno fare più il procuratore e il questore». Una clamorosa inversione della narrazione che finirà per indebolire la lotta alle mafie e a rendere più difficile la presa di coscienza della legalità nella società civile. “In medio stat virtus” dicevano i latini. L’equilibrio prima di tutto. L’ago della bilancia non può pendere da una sola parte in base alla politica di turno.
«Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica che ne ha diritto. Ancora in Italia non è stato vietato il diritto di informazione e della stampa», ha detto proprio nelle scorse ore il procuratore antimafia di Catanzaro, Nicola Gratteri.

L’aula bunker di Lamezia Terme

«L’unica cosa che mi dispiace è che ho visto la categoria dei giornalisti, i Consigli dell’Ordine dei giornalisti, sia a livello nazionale che a livello regionale, molto timidi nella protesta. Quasi che ai giornalisti – ha aggiunto Gratteri – vanno bene queste direttive per fare il loro lavoro. Mi ha meravigliato non poco questo atteggiamento timido dei rappresentanti dei giornalisti».
Una denuncia lanciata pubblicamente a margine della prima sentenza del maxi processo “Rinascita Scott” contro la ’ndrangheta che, in abbreviato, si è chiuso con una raffica di condanne. Un verdetto storico passato quasi inosservato e ignorato dalla stampa nazionale. Come se la ‘ndrangheta non fosse una delle grandi emergenze del Paese. In realtà, è una minaccia per la stessa Europa che chiude gli occhi e si gira dall’altra parte addirittura di fronte all’esistenza di un narco-Stato con annesso paradiso fiscale operante a due passi da Bruxelles, per poi pretendere di dare lezioni con lettere, raccomandate e direttive a chi nella lotta alle mafie è all’avanguardia. La letterina che l’Italia dovrebbe spedire all’Europa con un esplicito consiglio: copiare e incollare nel suo ordinamento la legislazione antimafia italiana, la migliore al mondo. Provare per credere.
Non siamo scesi in piazza, è vero, e forse avremmo dovuto farlo, ma apparteniamo a quella categoria di giornalisti che le notizie le cerca, non le aspetta stando alla scrivania e che non si farà bastare alcun comunicato stampa. Noi continueremo a informare sfidando ogni tipo di bavaglio, lavorando sulle carte, perché non siamo al servizio di nessuno, né pro e né contro nessuno, nel rispetto, come sempre, della legge sulla stampa e del nostro codice deontologico. (giornalistitalia.it)

Mimmo Famularo e Gabriella Passariello
direttore responsabile e caporedattore di Calabria7

 

 

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