ROMA – È partita ieri la nuova campagna abbonamenti del quotidiano “il manifesto”. «Una campagna coraggiosa e un po’ dark, in linea con i tempi che corrono», sottolinea il direttore editoriale Matteo Bartocci evidenziando che «un giornale da leggere al buio» è il primo degli slogan scelti, che porteranno il quotidiano a festeggiare, ad aprile, i suoi primi 50 anni.
«Quando abbiamo scelto di lavorare sul concetto di “buio” – e quindi di luce – naturalmente non sapevamo – spiega Bartocci – che la campagna sarebbe partita il giorno di una crisi di governo “al buio” o con le macerie del Campidoglio Usa preso d’assalto, ma non è un caso. Illuminare i fatti e lottare contro tutte le ingiustizie da mezzo secolo è il nostro lavoro di giornalismo appassionato e militante. Ma non saremmo nulla senza le nostre lettrici e i nostri lettori. Perciò rischiate con noi, abbonatevi e fate abbonare. Non abbiate paura del buio».
Ad oscurare “il manifesto”, però, ci ha pensato Google. «All’improvviso, a poche ore dalla partenza della campagna abbonamenti, scopriamo quasi per caso – spiega, infatti, Bartocci – che la storica app del manifesto è sparita dal Google Play Store. Proviamo a sentire gli sviluppatori e a controllare sulle caselle email amministrative».
«Dopo qualche minuto e un giro di telefonate, – racconta il direttore editoriale del manifesto – scopriamo un po’ nel panico che anche noi, nel nostro piccolo, siamo finiti nel mirino di Big G. Il gigante di Mountain View ci chiede di dimostrare che siamo davvero una app di news, che produciamo contenuti originali, scritti da giornalisti, che abbiamo un sito web, che rispettiamo la privacy, che non facciamo refusi (ahia!), etc. Iniziamo a cercare tra le varie schermate della Developer Console, una più demenziale dell’altra, e iniziamo a compilare 6 questionari che sembrano scritti da un funzionario dell’impero austroungarico. Dopo anni che siamo sullo Store e da mezzo secolo in edicola, Google ci chiede di dimostrare: se siamo la app di un giornale (la gerenza è sia embeddata nella app che qui sul sito), se rispettiamo la privacy (pochi sono più scrupolosi di noi, che non tracciamo né profiliamo), se la nostra app fornisce contenuti a pagamento (lo fa di default, è accessibile solo agli abbonati e Google prende circa il 40% dell’abbonamento da diversi anni), se pubblichiamo annunci pubblicitari (no, non lo facciamo ma è questo un motivo valido per cancellare un giornale?), se pubblichiamo contenuti non adatti ai minori (un giornale non è un porno, comunque nel dubbio autodichiariamo che siamo adatti a un pubblico dai 13 anni in su». «Google – prosegue il manifesto – ci risponde classificandoci subito come un prodotto “non adatto alla famiglia” senza ulteriori spiegazioni). Ma non basta. Google ci chiede anche: un abbonamento omaggio per verificare effettivamente il contenuto delle nostre edizioni digitali con tanto di istruzioni di login (Google che chiede l’abbonamento omaggio al manifesto ci fa abbastanza ridere). Ci spedisce a un ente di valutazione dei contenuti denominato IARC (mai sentito prima, almeno da noi). Al termine della compilazione di questi assurdi questionari compaiono delle confortanti spunte verdi. Ma il problema rimane. Google ci riscrive comunicando che saremo ancora al bando a causa di questa “Policy Issue”: “Apps without an IARC content rating are not permitted on Google Play”. Finché lo IARC non trarrà le sue conclusioni siamo cancellati dallo Store. Risolviamo anche questa, ma la app resta in revisione. Non si sa cosa stia avvenendo. Eppure la app è pubblica da anni e i commenti degli utenti e degli abbonati sono sempre stati super-positivi (a proposito, non ve lo abbiamo mai detto: Grazie!)». (giornalistitalia.it)
La campagna abbonamenti dei quotidiano comunista stoppata da Mountain View