BRUXELLES (Belgio) – Macedonia, ottobre 2014. Nella periferia della capitale Skopje, a qualche chilometro dal centro, in una piccola casa con una veranda sul davanti, una famiglia cerca di arrivare a fine mese. Non è facile, perché il padre, il giornalista investigativo Tomislav Kežarovski, deve rimanere in casa, dietro la veranda, agli arresti domiciliari.
Kežarovski è un giornalista molto stimato in Macedonia, attivo nell’indagare casi di corruzione e questioni politiche. È questo, ovviamente, il vero motivo del suo arresto nel maggio 2013. Una mattina presto, le forze di polizia hanno fatto irruzione in casa sua e lo hanno arrestato. Incarcerato senza processo, in una cella di 8 metri quadrati insieme ad altre cinque persone, venne poi condannato nell’ottobre 2013 a quattro anni e mezzo di detenzione. Secondo le autorità, il “crimine” commesso era l’aver rivelato, in un articolo del 2008 per il quotidiano Reporter 92, l’identità di un testimone protetto.
Il testimone però non aveva ancora ricevuto la protezione al momento della pubblicazione dell’articolo, e nel 2013 ha ammesso di aver rilasciato una dichiarazione falsa su pressione della polizia.
Kežarovski ha svolto un lavoro di grande valore: così grande, a quanto pare, che le autorità hanno dovuto metterlo a tacere con la reclusione. Lo scandaloso verdetto ha suscitato molte proteste, e il tribunale ha ridotto la pena agli arresti domiciliari dopo il primo anno.
Ho incontrato Kežarovski a casa sua, dove mi ha mostrato le cicatrici del raid della polizia durante l’arresto. Non sono solo cicatrici fisiche: il calvario della moglie e della figlia è una ferita mentale che non guarirà. Dopo le forti proteste esercitate dalla Federazione europea dei giornalisti (Efj), da una coalizione di organizzazioni della società civile e da istituzioni governative, la Corte d’appello ha ridotto la pena a due anni e mezzo. Poche settimane dopo, Kežarovski è stato rilasciato per ragioni di salute. Ora è libero e parla con franchezza del proprio paese.
Alla conferenza annuale Efj 2015 a Budva (Montenegro), il giornalista ha tenuto un discorso molto toccante: “Sono stato processato prima dal Tribunale penale e poi dalla Corte d’appello della Macedonia, un paese in cui un giornalista viene messo dietro le sbarre a causa di ciò che scrive. Non hanno voluto punire solo me, ma l’intera comunità del giornalismo, così come la nostra libertà e democrazia”.
Uccisioni e detenzioni
Questo è solo un caso fra centinaia in tutto il mondo, in particolare nei paesi in cui la mancanza di democrazia lascia alle autorità mano libera per punire le voci critiche con minacce e carcere. Nel 2014-2015, oltre 100 giornalisti e operatori dei media hanno pagato con la vita la volontà di fare il proprio lavoro. Istituzioni governative internazionali quali Unesco, Osce e Consiglio d’Europa hanno condannato con forza queste uccisioni.
Organizzazioni governative e non governative come le Federazioni europea ed internazionale dei giornalisti, il Comitato per la protezione dei giornalisti, Articolo 19, Index on Censorship e Reporter senza frontiere sono estremamente preoccupate per l’impunità dei crimini contro i giornalisti. Secondo un rapporto Unesco, negli ultimi dieci anni solo il 7% dei responsabili dell’uccisione di giornalisti sono stati assicurati alla giustizia. L’impunità per questi tipi di crimini è una questione cruciale per le organizzazioni che si battono per la libertà di stampa.
Impunità
Mettere a tacere i giornalisti è fin troppo facile, anche senza ucciderli. Bastano ad esempio le minacce o la detenzione. Alcuni paesi hanno sviluppato metodi molto sofisticati per ridurre al silenzio la stampa e in particolare i giornalisti investigativi. La detenzione di giornalisti per il loro legittimo lavoro promuove una cultura dell’autocensura, come sottolinea l’Unesco nel suo World Trends in Freedom of Expression and Media Development .
Se è facile condannare le uccisioni di giornalisti, le organizzazioni intergovernative sono spesso caute nel commentare le detenzioni, con le seguenti giustificazioni: le leggi usate per perseguire i giornalisti sono spesso simili nei paesi democratici e nelle dittature; è prassi non esercitare influenza sulle questioni interne di altri paesi; nessun governo ammetterà mai di aver incarcerato qualcuno per la sua attività giornalistica.
I giornalisti sono tipicamente accusati di partecipazione o propaganda per conto di organizzazioni terroristiche o criminali. In Turchia, i reporter sono accusati di propaganda a favore di un’organizzazione illegale o terroristica anche senza esserne membri: i governi che utilizzano il codice penale per perseguire i giornalisti sanno volgere a proprio vantaggio i cavilli giuridici.
Strumenti
Di recente, tuttavia, assistiamo ad un approccio attivo da parte di organizzazioni internazionali quali Osce, Commissione europea e Consiglio d’Europa, che utilizzano nuove piattaforme online per monitorare le violazioni della libertà dei media. Anche il progetto di mappatura sviluppato da Index on Censorship è un modo innovativo per tenere traccia, in tempo reale, di tutte le violazioni che si verificano nello spazio europeo.
Il caso macedone mostra quanto sia importante per le organizzazioni internazionali essere ferme e coerenti nel loro approccio per aiutare i giornalisti incarcerati.
Erano necessari nuovi strumenti, come ad esempio la nuova piattaforma per la protezione e la sicurezza dei giornalisti istituita dal Consiglio d’Europa , per informare i governi degli stati membri delle allarmanti violazioni della libertà dei giornalisti e delle loro organizzazioni.
Le organizzazioni di base, come le Ong, hanno il dovere e la responsabilità di avvertire le autorità competenti in caso di violazioni. Il Consiglio d’Europa si è impegnato a dare seguito a tutti i casi e chiedere spiegazioni ai governi.
Nel 2012, in Turchia vi erano più di 100 giornalisti dietro le sbarre. Efj e Ifj hanno lanciato allora un progetto dal titolo “Giornalismo libero in Turchia” che ha incoraggiato media e sindacati in tutta Europa ad adottare un giornalista in prigione: in questo modo, i sindacati dei media in tutta Europa sono stati incoraggiati a presenziare fisicamente ai processi contro giornalisti.
Il progetto ha avuto un forte impatto, fornendo sostegno, visibilità e aumentando la consapevolezza a livello internazionale rispetto alle vicende dei giornalisti detenuti e le loro famiglie, amici e colleghi.
Una vicenda esemplificativa è quella della giornalista Füsun Erdoğan, incarcerata senza le dovute procedure giudiziarie. Dopo aver scontato oltre sette anni di detenzione preventiva, le era stata comminata una condanna a vita.
Grazie alla doppia cittadinanza turco-olandese, ha però potuto ricevere aiuto dai sindacati olandesi, che hanno fornito consulenti e avvocati per chiedere il suo rilascio. Tramite Efj e la pressione internazionale, Füsun è stata finalmente rilasciata e trasferita nei Paesi Bassi. Casi come il suo sono sempre più frequenti, grazie al sostegno di molti paesi e alla mobilitazione di diversi giornalisti molto impegnati nel seguire questi casi.
Proprio quando il progetto aveva realizzato uno dei suoi obiettivi principali, riducendo il numero di giornalisti in carcere da oltre 100 a circa 30 in 2 anni, la Turchia è stata teatro di un tentativo di colpo di stato il 15 luglio 2016. Le ripercussioni (stato di emergenza permanente, caccia alle streghe nel settore pubblico e privato del paese) assomigliano molto ad un colpo di stato, stavolta riuscito, contro tutte le voci di dissenso e di opposizione in Turchia.
Il numero di giornalisti incarcerati è rapidamente tornato a superare quota 100, con molti mezzi di comunicazione messi fuori legge o sotto attacco.
Oltre 100
È difficile immaginare che un paese europeo tenga prigionieri oltre 100 giornalisti per il semplice fatto di aver svolto il proprio lavoro, ma è così. Ancora peggio, i negoziati fra Ue e Turchia sulla crisi dei rifugiati sembrano ignorare la situazione dei giornalisti e la grave mancanza di libertà dei media. Oltre ad attaccare i giornalisti locali, le autorità turche hanno anche rivolto la propria attenzione a quelli stranieri, mentre le Ong locali scontano non poche difficoltà nel far sentire la propria voce per chiedere l’attenzione internazionale.
Alla luce di tutto ciò, è di fondamentale importanza essere lì, a fianco dei giornalisti imprigionati. Il nostro sostegno e la pressione internazionale sono la loro speranza di libertà. L’attenzione degli osservatori europei ha un impatto reale sugli attori locali e sta giocando un ruolo importante per assicurare processi equi. Conosciamo fin troppo bene il rischio che, con il passare del tempo, ci si dimentichi dei giornalisti incarcerati.
Per certi aspetti, l’era digitale ha un impatto sulla detenzione dei giornalisti. Permette di immaginare iniziative fortemente auspicabili come la costruzione di network globali per mantenere alta e costante l’attenzione per tutti i giornalisti imprigionati, scongiurando il rischio che l’attenzione sui singoli casi possa calare con il passare del tempo. Molte organizzazioni pubblicano un elenco dei giornalisti uccisi, ma abbiamo bisogno di un quadro globale del numero di giornalisti incarcerati per mantenere la pressione sulle autorità.
Lo sviluppo su scala mondiale di progetti come “Giornalismo libero in Turchia”, garantendo visibilità globale ai singoli casi grazie a missioni esplorative in paesi mirati e azioni concrete, potrebbe avere un ruolo incisivo nel promuovere la scarcerazione dei giornalisti.
Perseguire gravi violazioni della libertà dei media come omicidio, detenzione o impunità deve essere una priorità per assicurare la protezione dei diritti fondamentali e l’accesso del pubblico alle informazioni. Ogni volta che un giornalista va in carcere, anche il diritto dei cittadini di accedere alle informazioni finisce dietro le sbarre. Non ci può essere libertà di stampa in Europa fino a quando un singolo giornalista è in cattività. *
Mogens Blicher Bjerregård
Presidente EFJ
* Questo articolo è stato scritto per l’Osservatorio Balcani e Caucaso (http://www.balcanicaucaso.org) nell’ambito del progetto “European Centre for Press and Media Freedom” cofinanziato dalla Commissione Europea