BEIRUT (Libano) – In principio fu Ahmed Suleiman Daheek, ucciso dai colpi di un carro armato il 5 maggio 2011 a Homs, una delle principali città siriane, soprannominata da alcuni osservatori “la culla della rivoluzione”. Daheek era un giornalista, e la sua morte è la prima di un reporter documentata nella guerra in Siria.
Il bilancio di questi sei anni di combattimenti si riflette drammaticamente anche su chi questo conflitto tenta di raccontarlo: secondo Reporters sans frontieres sono 211 i giornalisti uccisi nel paese dal 2011 ad oggi, più o meno 35 all’anno, di cui 19 nel 2016. Almeno 21 quelli presi in ostaggio o spariti nel nulla, 26 quelli imprigionati.
Chi se la passa peggio sono i giornalisti siriani, che costituiscono l’88% di quelli morti in Siria: spesso ragazzi che si sono reinventati reporter con l’inizio della guerra, rinunciando a tutto per raccontare porzioni di conflitto con mezzi limitati, e rischiando di essere presi nel mezzo tra le varie fazioni, o imprigionati a causa del loro lavoro. D’altronde secondo Rsf la Siria si posiziona oggi al 177° posto su 180 nella classifica della libertà di stampa mondiale.
C’è chi è morto, chi è stato costretto all’esilio, chi a vivere in clandestinità, senza alcuna garanzia o supporto. Taher al Zahouri, nato a Qusayr nel 1975, è morto nel 2013 nella provincia di Damasco, nei dintorni di Yabroud, quando un colpo di mortaio lo ha centrato mentre filmava i combattimenti tra forze ribelli e quelle del regime, sostenute da Hezbollah.
Lo stesso destino è toccato a Wassim Al Adl, morto a Maarat an Numan (governatorato di Idlib) sotto i bombardamenti dell’aviazione russa nell’ottobre 2015. Al Adl era considerato tra gli attivisti siriani uno dei più coraggiosi reporter in Siria, e aveva coperto gli scontri più duri, soprattutto ad Idlib, Ariha, Jisr Al Shughur e Sahel al Ghab. Anche Khaled al Issa, cameraman, conosciuto come “il bel martire”, è morto in Turchia a causa delle ferite riportate in seguito ad una esplosione che lo colpì fuori dalla sua casa ad Aleppo est.
Hanno, invece, salvato la pelle Mohammad Al Sibaie e Hadi Abdallah. Il primo, ex studente di economia, ha lasciato l’università per dedicarsi all’attivismo e al giornalismo, coprendo il conflitto sopratutto nel quartiere di al Waer, ultima roccaforte ribelle nella città di Homs.
Al Sibaie ha postato sui social media centinaia di video dei raid aerei del regime, ed è apparso anche in alcune emittenti internazionali per raccontare la situazione ad Homs. Nel 2013 ha fondato l’Homs media centre, e nonostante tuttora il suo nome figuri nella lista delle persone che il regime siriano vuole cacciare verso il nord della Siria, continua a rimanere ad Homs, in condizioni di semi clandestinità.
Hadi Abdallah, nato nel 1987, è forse il più conosciuto tra essi, spesso interpellato da vari canali satellitari arabi. Infermiere poi convertitosi al giornalismo, coinvolto sin da subito nelle proteste anti regime ad Homs (comprese quelle di Baba Amr, nel 2012), Abdallah è molto attivo sui social, dove posta spesso i suoi filmati.
Dopo essere tornato nel 2012 nella sua città nativa, Qusayr – quindici chilometri dal confine libanese – Hadi Abdallah è stato il primo giornalista in assoluto ad aver documentato l’intervento di Hezbollah a fianco delle forze del regime siriano, qualche tempo prima che le stesse milizie sciite ammettessero il loro coinvolgimento diretto nella guerra in Siria.
Dopo la battaglia di Qusayr, Abdallah ha coperto quelle egualmente strategiche nella vicina area di Qalamoun, fin quando non si è dovuto spostare nel nord, a Idlib, dopo aver ricevuto la notizia di essere nelle mire di Hezbollah. Abdallah è stato ferito nell’esplosione che ha ucciso il suo cameraman Khaled Al Issa, ad Aleppo est, e a gennaio 2016 è stato rapito per qualche giorno da Jabhat al Nusra. Lo scorso novembre ha ricevuto da Rsf un premio giornalistico, che in un tweet ha dedicato ai giornalisti caduti in Siria. (agi)