VICENZA – Ho ricevuto qualche giorno fa la tessera del sindacato al quale appartengo da oltre trent’anni. Una specie di carta plastificata, tipo bancomat, con nome e cognome, regione di appartenenza e con la scritta Fnsi che occupa un solo lato: Federazione nazionale della stampa italiana. L’ho guardata e riguardata e poi mi sono chiesta: ma che cosa sta facendo la Federazione?
Da otto anni siamo senza rinnovo del contratto di lavoro, non è stato firmato alcun protocollo che regoli il telelavoro e non lo smart working, perchè – non dimentichiamolo – sono due concetti diversi. Gli integrativi che si firmano sono sempre al ribasso, spesso con la disdetta dei precedenti. Gli straordinari non si pagano più se non vengono forfettizzati dalle aziende editoriali, parliamo di cifre che vanno dai 100 ai 200 euro al mese (quando va bene) che coprono circa sei-sette ore lorde di lavoro.
Nei giornali si fanno spazio figure editoriali differenti, più vicine agli esperti di marketing e comunicazione che ai professionisti dell’informazione. Sta cambiando tutto, sempre più spesso vediamo quanto e come la pubblicità sia inserita all’interno delle pagine senza alcuna distinzione di carattere tipografico oppure con la scritta “informazione pubblicitaria”, tutto aleggia nel limbo degli eventi o delle pagine speciali come vediamo nei grandi giornali nazionali.
Anzi, alcuni si stanno spingendo anche alla vendita di attrezzi da palestra. Eravamo fermi al libri, alle bandiere, alle mascherine chirurgiche e a quelle FFP2. All’accoppiata settimanale e quotidiano, ma ora l’asticella si è spostata ancora più in alto. Le regole del mercato sono altre e a comprenderle, a capirle e a tradurle, sono solo gli editori. Perché in cattedra, da anni, ci sono loro. Fermi su posizioni che prevedono flessibilità, costo del lavoro sempre più basso, l’ingresso di nuove figure che non devono essere per forza giornalisti, categoria invisa a molti.
Anche in questo caso i tempi sono cambiati, veniamo dileggiati sui social, malmenati durante le manifestazioni dei “no vax”. E ancora – gesto gravissimo – minacciati e intimiditi dalle cosche mafiose. Collaboratori che vengono pagati pochi euro a pezzo, tanto se non accettano fuori c’è, comunque, la fila che attende. La qualità dell’informazione è molto bassa, in tv e sui giornali. Assistiamo a risse continue e la pandemia prima e la guerra ora, non ci elevano come categoria. Il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che deve valutare quali sono gli ospiti di una trasmissione Rai, e ancora il caso “Report”, ma ci rendiamo conto? Sembra di essere su un altro pianeta dove il filo dell’indipendenza, dell’autorevolezza, dell’approfondimento, della qualità si è perso, smarrito. O, forse, nella migliore delle ipotesi solo dimenticato. E sulla scorta di tutto questo perché dal sindacato non si eleva una voce autorevole in grado di porre l’accento su quali sono i problemi della nostra professione? Che dica una volta per tutte che cosa dobbiamo fare? Perché i cambiamenti sono importanti, ma è necessario coglierli. Anzi, anticiparli dove possibile. E di tempo ne abbiamo avuto molto. Invece, abbiamo un sindacato che si compatta quando ci sono le elezioni degli organi di rappresentanza perché c’è sempre qualcuno che deve vigilare, per una maggioranza che non esiste più, che ha sempre meno iscritti, che non riesce a parlare, a comunicare e, soprattutto, a fare.
Se chiediamo ad un giovane giornalista chi è il segretario della Fnsi ci dice non lo sa. Del resto come facciamo a saperlo dal momento che sono anni che la sua voce è silente, che da Corso Vittorio Emanuele II non esce una strategia, un programma per rinsaldare una categoria in estrema sofferenza. Ma è sufficiente guardare sul sito per capire su che cosa la Federazione sta lavorando: molti congressi, tante manifestazioni sulla libertà di stampa, purtroppo con sempre meno colleghi. Poi scopri che c’è il 31° Congresso Mondiale della Federazione internazionale dei giornalisti in Oman con oltre 250 delegati in rappresentanza dei sindacati e delle associazioni di categoria di 92 Paesi. Al centro i temi “caldi” della professione, dalle azioni di denuncia e contrasto alla sorveglianza dei giornalisti, a quelle per porre fine all’impunità per i crimini contro gli operatori dei media, alla parità di genere nel giornalismo.
E la lista potrebbe proseguire con seminari, corsi di aggiornamento. Tutte iniziative lodevoli, ma un sindacato non può lavorare solo su questo. Alla professione serve altro, la revisione di un contratto con regole obsolete per come si sono trasformate le redazioni. Comitati di redazione che rispondano quando nelle redazioni ci sono commistioni evidenti con la pubblicità. Invece le rappresentanze di base sono sempre più difficili da trovare, del resto chi si prende l’onere di far valere diritti sacrosanti? Pochi, e quei pochi tirano a campare, altri si concentrano sugli integrativi, ma per il resto il senso di appartenenza non esiste più. Siamo attaccati ad un piccola cannula di ossigeno, ma la bombola si sta esaurendo. Vedere il presidente della Fnsi che parla di Giulio Regeni mi fa piacere, che si dilunghi sulla collega Daphne Caruana Galizia assassinata a Malta va benissimo, ma serve altro per tenere unita una categoria. E questo lo sappiamo tutti. Guardiamoci in faccia, contiamo gli iscritti e ricordiamo l’appartenenza ad un sindacato fondato nel 1908 «con lo scopo di coordinarsi per unire la categoria e renderla maggiormente indipendente dal potere politico ed economico».
Siamo ancora così indipendenti? Lo siamo mai stati? Almeno in questi ultimi vent’anni? Onestamente ho molti dubbi. Non abbiamo mai affrontato questa situazione, abbiamo sempre fatto finta ci fossero altre priorità, emergenze, magari in alcuni casi era vero. Eppure oggi si ripresenta quest’emergenza, sotto spoglie diverse, ma il tema dell’indipendenza e dell’autorevolezza si deve affrontare, ammettendo errori e molto altro. La Fnsi dalla fondazione ha fatto molto, ma non possiamo ragionare ancora con la testa rivolta al passato. È necessario guardare avanti, avere idee, programmi che ci riportino a risalire la classifica mondiale della libertà d’informazione che, nel 2022, ha visto il nostro Paese sprofondare al 58° posto, nonostante l’anno prima occupasse un già preoccupante 41° posto.
La Germania scende al 16° posto «per le decine di giornalisti attaccati da manifestanti vicini a movimenti estremisti durante il Covid», ma parliamo della 16ª posizione. Come funziona l’informazione in quel Paese, è più attenta, che contratti ci sono nelle aziende editoriali, esiste la figura del collaboratore e come viene pagato? Capire e proporre potrebbe essere una strada da percorrere.
E, poi, l’Ordine del Giornalisti nato nel 1963 con lo scopo di «tutela e vigilanza della professionalità della categoria e della gestione dell’Albo nazionale». Con un presidente Carlo Bartoli fotografato con un cartello giallo e la scritta “Journalism is not a crime” usato per la manifestazione a favore di Julian Assange. Gesto corretto, giusto, ma in Italia quante inchieste facciamo? Pochissime e i motivi sono molti e credo che il gossip sia predominate dappertutto. Il corto circuito che c’è stato qualche giorno fa con una conduttrice televisiva veneta, Sara Pinna, è emblematico: un deprecabile episodio accaduto il 20 maggio scorso è diventato cronaca dopo dieci giorni con il post su Facebook di un’associazione, ripreso poi con interviste da tutti i giornali nazionali e dai rispettivi siti web. E l’Ordine, senza sapere che la conduttrice non era iscritta ad alcun elenco, è partito subito chiedendo copie del filmato e demandando il giudizio alle Commissioni territoriali. Che dire? Forse ci aspettiamo altro da un Ordine, ma si sa, si muove solo su segnalazione …
Forse è giunto il momento per una riflessione seria sull’intera categoria che lasci spazio alla voce di tutti. In America l’hanno fatto da tempo e anche in molti Stati europei. Noi arranchiamo. Non può essere il presidente del Consiglio, Mario Draghi, a dirci che l’intervista con il ministro russo Lavrov era “aberrante”, lo deve sostenere un Ordine, lo deve far capire un sindacato, intervenendo pubblicamente. E non basta l’articolo 21 della Costituzione a tutelarci. Perché il giornalismo si regge su una democrazia, anzi contribuisce a farla vivere e crescere: perché la libertà di informazione, fino a prova contraria, è ancora un diritto. (giornalistitalia.it)
Chiara Roverotto
Purtroppo la tua disamina è condivisibile. Senza contare che non esistono “lobby” dei giornalisti fatte per valorizzare il lavoro o tutelare la professione e che, ad esempio in ambito di pubblica amministrazione, sono più di 20 anni che si aspetta di vedere messa in pratica la fatidica Legge 150 (e, parallelamente, continua l’assenza di contribuzione per le casse inpgi dei tanti che non hanno contratti specifici).
Per non parlare poi del fatto che non viene proposto un modo per tutelare chi fa giornalismo da chi non ci prova nemmeno ma millanta titoli, specie sui social.
Insomma, di argomenti per far lavorare un sindacato ce ne sarebbero eccome, ma tutto tace. del resto se provi a contattare via mail anche solo l’ordine non ti rispondono nemmeno con un cenno di riscontro…
Ordine – sindacato, ma servono ancora ? Soprattutto oggi che sono diventati tutt’altro.