TORINO – Fino a quel momento era stata una sera come altre. Verso le dieci era uscito dalla redazione e a piedi aveva raggiunto la fermata del 14 in corso Re Umberto, all’altezza di via Legnano. Invece venerdì sera il cronista di Repubblica Gabriele Guccione, mentre aspettava l’autobus che lo avrebbe riportato a casa, è stato aggredito e malmenato da tre giovani, sui vent’anni, probabilmente nordafricani, che hanno cercato di rapinarlo. Al pronto soccorso del Cto, i medici hanno diagnosticato una frattura del trochite omerale del braccio destro ed emesso una prognosi di trenta giorni.
L’aggressione è avvenuta verso le 22.40. Avendo perso l’autobus alla fermata di corso Vittorio, il nostro collega aveva deciso di incamminarsi a piedi verso la fermata successiva. Ed è lì che un giovane, che indossava un giubbotto col cappuccio, sbucato da dietro, si è avvicinato al giornalista e gli ha strappato di mano il cellulare. La risposta istintiva è stata quella di colpire con una manata al volto il rapinatore e di riprendersi il telefonino.
Ma proprio in quel momento due complici dell’aggressore si sono avvicinati e lo hanno bloccato. Gabriele Guccione ha cercato di scappare, ma i tre lo hanno inseguito e buttato a terra, prendendolo a calci. Poi probabilmente sono stati disturbati da qualcosa, perché uno ha richiamato in fretta i due complici e i tre si sono dileguati, senza portargli via nulla, né portafogli né cellulare.
Rimasto a terra, il nostro collega è stato soccorso da un automobilista che aveva parcheggiato a pochi passi dal luogo dell’aggressione. Delle indagini si stanno occupando i carabinieri della stazione Monviso. (la Repubblica)
“Erano tre, gridavo aiuto e mi sono sentito solo”
TORINO – La città è vuota e fa paura. Fa paura perché sono solo le dieci e mezza ed è come se i torinesi fossero svaniti nel nulla della sera. Come diceva l’Avvocato in questi casi: “Lasciate che riposino”. Fa paura, la città, perché dietro le finestre che si accendono, mentre sul marciapiede, due piani più sotto, sono solo urla e grida e minacce, compaiono ombre di indifferenza. Che non solo non muovono un dito per digitare sul telefono tre semplici cifre che sono nella memoria di tutti, ma nemmeno tentano di far sentire la loro presenza per spaventare dall’alto gli aggressori. Persone senza un volto. La città non fa paura per altro, non dovrebbe far paura il vuoto se anche il vuoto fosse abitato.
E così l’altra sera, come ogni sera, sono uscito dal giornale e ho saputo cosa vuol dire essere soli. Stavo aspettando il 14 alla fermata per tornare a casa, in giro nessuno, e per la prima volta in ventott’anni mi sono sentito solo a Torino. E non è successo a Barriera di Milano o a Falchera. Non è successo nemmeno davanti al Moi, a due isolati da casa mia, nel quartiere dove sono nato e cresciuto e dove da qualche tempo i professionisti che si sono affiliati al franchising della paura urlano dagli al «negro» ad ogni piè sospinto; tutte le sere da due anni viaggio con chi, abbandonato dallo Stato, ha trovato rifugio dentro le vestigia olimpiche di via Giordano Bruno: non è mai successo niente.
È successo invece alla Crocetta, nel quartiere “bene”. Dove non ti aspetteresti di essere preso a calci e a pugni su un marciapiede da tre ragazzi appena ventenni che, la loro origine non importa, parlano benissimo l’italiano e vogliono il tuo cellulare da 150 euro. Ero alla fermata di via Legnano, dopo aver fatto due passi da corso Vittorio, dove avevo perso il primo bus. È qui che mi si piazza davanti un giovane che mi strappa dalle mani lo smartphone mentre stavo cercando, in queste sere “festive” di servizio a singhiozzo, il passaggio del prossimo bus sull’app di Gtt. Ma a credere nella mobilità sostenibile in questa città ci si rimette: due aggressioni in un anno, l’altra sul tram 4 ad opera di un tossico che mi aveva seguito fino alla mia fermata. Ero riuscito ad allontanarlo.
Questa volta no. Dapprima ho la prontezza di riprendere il telefono e di allontanare lo scippatore con una manata. Scappo via. E solo allora mi accorgo che gli aggressori sono tre. In mezzo al deserto di corso Umberto, cominciano a menare mani e piedi. Urlo aiuto. Nessuno sente o ha orecchi per farlo. Allora tratto: «Prendete i soldi, lasciatemi il cellulare”. Dentro c’è la mia agenda, la mia rubrica. Il mio mestiere, ormai è in buona parte lì dentro. Con mia sorpresa però mi lasciano a terra e scappano, senza prendere niente. Deve averli spaventati qualcosa.
Frattura trochite omerale. L’aggressione mi è costata una spalla rotta e 30 giorni di prognosi. La simpatia e la professionalità del dottor Massimo Girardo e della radiologa Silvia Castellano del Cto hanno reso la diagnosi meno triste. Ma alla fine resta il dolore. Non tanto per la spalla. Per quell’ombra che tale è rimasta, sparendo dietro una finestra di indifferenza che il mio sguardo puntava mentre stavo a terra. E che alla fine l’unico gesto che ha fatto è stato di spegnere la luce. (la Repubblica)
Gabriele Guccione