ROMA – Chi l’ha detto che il giornalismo è in crisi? A giudicare dai titoli di Hollywood non c’è settore più in salute. Dagli scandali della politica a quelli del Vaticano: il giornalismo scova le magagne e il cinema le porta sul grande schermo.
Se dovessimo cercare un volto emblematico di tutto ciò non avremmo difficoltà a trovarlo in Robert Redford, indimenticato protagonista di «Tutti gli uomini del presidente» sul caso Watergate e, in questi giorni, di nuovo al cinema nei panni di un impegnato anchorman televisivo in «Truth – Il prezzo della verità».
L’opera prima del regista James Vanderbilt racconta la storia della produttrice della Cbs News Mary Mapes (Cate Blanchett) che la sera dell’8 settembre 2004 manda in onda un servizio giornalistico durante la trasmissione «60 Minutes» condotta da Dan Rather (Robert Redford).
Il reportage rivelava prove secondo cui il presidente George W. Bush aveva trascurato il suo dovere nel periodo in cui prestava servizio come pilota nella Guardia Nazionale dell’Aeronautica del Texas, dal 1968 al 1974. Ma a pochi giorni dallo scandalo, i registri del servizio militare di Bush smisero di essere al centro dell’attenzione dei media e del pubblico e, da quel momento in poi, furono «60 Minutes», la Mapes e Rather a passare sotto la lente di ingrandimento.
Parlare di Robert Redford e di giornalismo investigativo non può non far tornare alla mente i quattro premi Oscar di «Tutti gli uomini del presidente», diretto nel ’76 da Alan Pakula. Ispirato al libro omonimo di Bob Woodward e Carl Bernstein, ripercorre le vicende che hanno portato alle dimissioni del presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon.
La sera del 17 giugno 1972 cinque uomini vengono fermati mentre si trovano all’interno della sede del Partito Democratico, in uno dei palazzi del complesso residenziale Watergate a Washington. Il giorno successivo Bob Woodward, un giovane cronista del Washington Post, si trova in tribunale per seguire l’udienza e durante l’interrogatorio scopre che uno degli effrattori lavora per la Cia. Sospettando che l’intrusione sia collegata alla campagna elettorale per la rielezione del presidente degli Stati Uniti comincia a indagare negli ambienti governativi.
Anche un altro cronista del quotidiano di Washington, Carl Bernstein, si interessa all’argomento. L’inchiesta sembra arenarsi ma Woodward ha un misterioso informatore nella redazione del Washington Post («gola profonda») che, pur senza fornire elementi espliciti, cerca di indirizzarlo sulla strada giusta, quella che porterà al «Comitato per la rielezione» del Partito Repubblicano.
Nel frattempo, il 7 novembre dello stesso anno, Nixon viene rieletto a larga maggioranza presidente contro il candidato democratico George McGovern. Pezzo dopo pezzo, i due reporter scoprono che il «Comitato per la rielezione» è in realtà una potente organizzazione che utilizza metodi di corruzione e spionaggio con implicazioni della Cia e dell’Fbi per sabotare la campagna elettorale del Partito Democratico.
Il 9 maggio 1974 l’inchiesta del Washington Post porta all’apertura della procedura di «impeachment» nei confronti di Nixon che, esattamente tre mesi dopo, il 9 agosto dello stesso anno, presenta le dimissioni.
Altro caso giornalistico recentemente finito sugli schermi cinematografici è «Il caso Spotlight», scritto e diretto da Tom McCarthy, vincitore del premio Oscar 2016 come miglior film e miglior sceneggiatura originale. Questa volta nel mirino c’è addirittura il Vaticano.
Nel 2001 la squadra giornalistica «Spotlight» del «Boston Globe», guidata dal neo-direttore Marty Baron, comincia un’indagine che svela gli abusi sessuali perpetrati da oltre 70 sacerdoti dell’Arcidiocesi di Boston ai danni di minori, abusi che erano stati insabbiati dall’autorità ecclesiastica. Consapevoli dei rischi cui vanno incontro mettendosi contro un’istituzione come la Chiesa cattolica, Marty Baron e Ben Bradlee Jr., più i quattro membri della squadra investigativa del giornale, sono determinati più che mai a portare la verità alla luce.
Sembra proprio di sentire le parole di Orson Welles/Charles Kane quando in «Quarto Potere» afferma lapidario: «È la stampa baby». (Il Tempo)
Carlo Antini