ROMA – Storia e Storia del giornalismo (e delle comunicazioni) si intrecciano talmente tanto che McLuhan arrivò sostanzialmente a postulare che la Storia dei mezzi e modi di comunicazione contenga in sé tutta la Storia.
In periodi particolarmente critici, la due cose sono comunque strettamente interconnesse. Come nel periodo di transizione dell’Italia dal fascismo alla democrazia, dalla Monarchia alla Repubblica, dallo Statuto alla Costituzione. Insomma, dal 25 luglio 1943 al 31 dicembre 1947 (il 1° gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione repubblicana).
A questo decisivo, ma tutto sommato poco indagato periodo della nostra Storia recente Giancarlo Tartaglia, segretario generale della Fondazione Paolo Murialdi per il giornalismo, istituita dagli organismi di categoria del giornalismo italiano, a lungo direttore della Federazione nazionale della stampa italiana, uno dei massimi esperti di contrattualistica giornalistica (è coautore in materia con l’avv. Del Vecchio di un utilissimo commentario, purtroppo “fermo” al contratto del 2001 ed al suo aggiornamento economico del 2003), giuslavorista per formazione e per attività professionale, e cultore di studi storici (non solo giornalistici) per passione, ha dedicato un libro fondamentale, “Ritorna la libertà di stampa. Il giornalismo italiano dalla caduta del fascismo alla Costituente (1943-1947)” (Il Mulino, pp. 620, 42 euro), che non è “soltanto” l’atteso secondo volume della sua storia del sindacato dei giornalisti italiani (nel 2008 era apparso “Un secolo di giornalismo italiano. Storia della FNSI (1877-1943)”) ma un importante saggio che scandaglia un periodo cruciale durante il quale si gettarono le basi del futuro assetto dell’Italia. Inclusi il sistema dei media e l’ordinamento di base della professione giornalistica (che troverà definitiva conformazione solo nel 1963, con la legge 69 istitutiva dell’Ordine).
Lunedì 26 luglio 1943 (il cambio di governo fra Mussolini e Badoglio era stato comunicato dall’Eiar, la radio di Stato, alle 22,47 di domenica 25, ed ai giornali era arrivato anche il comunicato ufficiale dell’agenzia Stefàni, l’agenzia ufficiale italiana di notizie) uscì a Milano l’ultimo numero del Popolo d’Italia, il quotidiano della famiglia Mussolini, che dava notizia dell’incarico conferito a Badoglio ed invitava all’ ”armonia dei sentimenti” ed alla riscossa dell’Italia. Ma non arrivò al pubblico, perché gli edicolanti si rifiutarono di accettarlo. Mentre il 27 mattina, ancorché non ancora autorizzata, sempre a Milano veniva diffusa, non più clandestina, l’Unità, organo del Pci.
Intanto, alle nove del mattino del 26 luglio, poche ore dopo l’annuncio ufficiale delle “dimissioni” di Sua Eccellenza il cavaliere Benito Mussolini, a Roma, nel circolo della stampa, a palazzo Marignoli (in quello che allora si chiamava Corso Umberto I ed oggi via del Corso, con ingresso anche da piazza San Silvestro, laddove ha avuto sede fino al 2014 la Sala stampa italiana, che ospitava i corrispondenti dalla capitale dei quotidiani italiani, e dove aveva sede anche il Sindacato fascista interprovinciale dei giornalisti), su iniziativa di Leonardo Azzarita, Sinibaldo Tino e Francesco Tatò, un gruppo di 25 giornalisti, tutti con attività professionale iniziata prima del fascismo, e spesso dal fascismo “silenziati” o radiati dall’albo, proclamò la rinascita della Federazione nazionale della stampa italiana, il sindacato unitario dei giornalisti che il regime aveva disciolto, sostituendolo col Sindacato fascista dei giornalisti. Ma era davvero tornata la libertà di stampa?
In realtà restava in vigore, anche per il giornalismo, l’impianto giuridico ed amministrativo del fascismo; non solo: se nei 45 giorni badogliani (fra la notte del 25 luglio e l’8 settembre) in molti giornali tornarono (o si palesarono) giornalisti antifascisti, e vi fu una effettiva “esplosione” di libertà, dopo l’8 settembre il controllo militare (alleato al Sud; nazista nel Centro-Nord, poi nel Nord) sulla stampa ritornò pesante.
In questo zig-zagante ritorno alla libertà di stampa giocò un ruolo strategico la Puglia – dove il Re col suo governo si era rifugiato dopo l’8 settembre. Pugliese era intanto Azzarita, che era stato capo della redazione romana e nella fase finale direttore del Corriere delle Puglie di Bari (cessato nel 1923 e poi fuso con la Gazzetta della Puglia, per dar vita alla Gazzetta del Mezzogiorno) e che nel 1922 era entrato nel consiglio nazionale della Fnsi in rappresentanza della neo-costituita Associazione della stampa di Bari (si ricostituì nell’aprile 1946, sede a Bari, rappresentava Puglia Basilicata e Calabria).
La Gazzetta del Mezzogiorno, poi, fu l’unico quotidiano italiano a non interrompere neanche per un giorno le pubblicazioni, né dopo la caduta del fascismo né dopo l’8 settembre. E si trovò oltretutto ad essere l’unico quotidiano nel cosiddetto Regno delle quattro Province (Bari, Taranto, Brindisi, Lecce), dove l’Amgot (l’Amministrazione militare alleata dei territori occupati) aveva concesso un residuo di sovranità al Re d’Italia ed al suo governo.
Beninteso, la transizione, dal fascismo, al badoglismo, all’antifascismo ed agli alleati anglo-americani, ebbe anche risvolti grotteschi (alla caduta del fascismo, dopo la “fuga” del direttore Pupino Carbonelli, fascista antemarcia, da poco rientrato dagli Usa, dove era stato internato, e dove era stato a lungo corrispondente del Corriere della Sera, e nominato direttore nel luglio ’43, il vicedirettore Pascazio, che veniva addirittura dal quotidiano mussoliniano Il Popolo d’Italia, lo accusò dalle colonne della Gazzetta di essere “direttore squadrista imposto dal defunto regime”; ma poi fu epurato pure lui; in seguito fu inserito in un elenco di epurandi anche il redattore capo De Secly, vecchio giornalista antifascista, che aveva gestito il giornale, con o senza titolarità di direzione, nei giorni convulsi delle giravolte dell’estate/autunno 1943) ma consentì che un minimo di informazione cartacea non venisse mai meno. E copie della Gazzetta vennero addirittura lanciate il 6 ottobre su Roma sotto occupazione nazista, insieme con volantini di propaganda del Regno del Sud, da due aerei dell’Aeronautica militare italiana partiti da Brindisi, la nuova capitale dei Savoia.
Ancora, Radio Bari, la potente stazione radio dell’Eiar che irradiava anche programmi per il Mediterraneo orientale ed il mondo arabo, diventò dopo l’8 settembre, requisita pochi giorni dopo dagli anglo-americani, la voce ufficiale dell’Italia liberata (anche se gli Alleati avevano già usato la stazione radio di Palermo dall’agosto ’43 per trasmissioni di propaganda in Italiano), ancorché sotto il controllo del Pwb (Psycological warfare branch, Divisione per la guerra psicologica, l’organo militare alleato che controllava i mass media del Regno d’Italia durante la seconda fase della II guerra mondiale), con non poche “interferenze” del governo Badoglio (che per esempio riuscì a sostituire l’azionista Cifarelli, di tendenze repubblicane, come direttore del giornale radio).
Ma il governo Badoglio inventò anche la par condicio nell’emittenza, con molto anticipo sulla legge del 1993; nel gennaio 1944, come riporta Tartaglia, con l’assenso del Pwb, il capo dell’ufficio stampa del governo Badoglio, Nino Bolla, “autorizzò i sei partiti del Cln ad esprimere la loro posizione un giorno alla settimana alla radio; il settimo sarebbe spettato al governo”.
Nel fondamentale studio di Tartaglia c’è anche tutto il dibattito, politico e non solo, sul futuro assetto della stampa, delle imprese editoriali e della professione giornalistica. A partire dal destino delle imprese di editori che avevano fiancheggiato il fascismo, o che addirittura grazie al fascismo si erano impossessati dei giornali.
I partiti antifascisti (tranne il liberale, che era ideologicamente per il libero mercato assoluto) volevano evitare, inizialmente, che questi editori collusi riprendessero in mano i giornali; così come volevano epurare i giornalisti compromessi col fascismo. Complici l’amnistia togliattiana e il clima della guerra fredda, che stava per iniziare, invece i beneficati dal fascismo si ripresero i giornali (Agnelli mantenne il controllo della Stampa, nonostante le proteste di Frassati, che riebbe solo una quota minoritaria; i Crespi si ripresero il Corriere della Sera; i Perrone il Messaggero; Ardizzone conservò il Giornale di Sicilia, anche grazie al fatto che era stato sottosegretario di Bonomi e dirigente Fnsi, eccetera), ed i giornalisti realmente radiati dall’albo furono pochi. E l’albo, per fortuna, rimase, nonostante i tentativi degli editori di farlo abrogare.
Nel convulso periodo 26 luglio 1943 – 31 dicembre 1947 l’Eiar cambiò nome in Rai, ma rimase emittente di Stato (con polemiche, soprattutto da sinistra, su come occorresse un controllo “politico” e “popolare” sulla radio), mentre dalle ceneri della Stefàni nasceva l’Ansa, Agenzia nazionale della stampa associata, una agenzia non ufficiale ma ufficiosa (frutto di un compromesso fra chi voleva più agenzie di stampa private – i liberali, sostenuti in questo da Usa e Regno Unito – e chi voleva un’agenzia nazionale sotto controllo governativo – i comunisti), gestita da una società cooperativa formata dagli editori dei quotidiani (inizialmente, dei soli quotidiani ammessi, dodici giornali romani, organi dei partiti del Cln o comunque autorizzati dagli Alleati; il suo primo consiglio di amministrazione era formato dai direttori dei sette quotidiani ufficiali dei partiti antifascisti: i sei del Cln più il Partito repubblicano), paradossalmente gestita però per un certo periodo (anche a livello amministrativo, non solo di direzione giornalistica) dai massimi esponenti della Fnsi: Facchinetti ed Azzarita (che erano stati inoltre presidente e segretario della commissione per l’epurazione.
La Federazione della stampa, principale protagonista del saggio, emerge come soggetto unitario perché capace – allora – di rappresentare ampiamente tutte le sensibilità e le aree politiche, senza pretese egemoniche e senza sognare il dominio di una corrente, per quanto potesse essere maggioritaria, considerando pluralismo ed articolazione delle visioni come una ricchezza e non un ostacolo; un sindacato, peraltro, realmente forte e rispettato, dal potere politico come dagli editori; un sindacato che mandò al governo, in ruoli strategici, molti dei suoi dirigenti nazionali (dallo stesso Bonomi, capo del governo, che aveva Cevolotto ministro e Molè sottosegretario, ambedue fra i dirigenti della ricostruita Fnsi, a Facchinetti, Gonella, Spano, Lupis, ministri o sottosegretari nei governi De Gasperi; ricordiamo per inciso che oltre a Bonomi, che era stato tra i massimi dirigenti della Fnsi, erano di professione giornalisti, sia pure senza aver ricoperto incarichi sindacali, i due successivi presidenti del Consiglio, Parri e De Gasperi).
Anche nella redazione della “nuova” legge sulla stampa, emanata prima della Costituzione, largo spazio ebbero i rappresentanti della Fnsi.
Nella nuova Costituzione, la libertà di stampa, che era già prevista nello Statuto albertino in una formulazione che poteva essere aggirata (e infatti durante il fascismo lo fu), veniva invece sancita in modo inequivocabile; dopo aver respinto – anche grazie al vigoroso intervento della Fnsi nel suo congresso di rifondazione, a Palermo, assise cui presenziarono il capo provvisorio dello Stato, De Nicola, ed il presidente del Consiglio, De Gasperi – tentativi di “imbrigliamento” dei giornali e dei giornalisti. E dopo un vivace confronto alla Costituente su chi, quando e dove potesse procedere al sequestro di pubblicazioni. E anche di questo – illustrando il passaggio da quello che doveva essere l’art. 16 a quello che sarebbe stato l’art. 21 nella stesura definitiva – tratta il volume di Tartaglia.
Abbondano poi le curiosità, neanche poi troppo fini a sé stesse, come i provvedimenti adottati per rifinanziare le pensioni dei giornalisti (l’Inpgi era in crisi…) attraverso il 10% dei proventi della lotteria di Merano, quella all’epoca con la maggiore dotazione, ed il 2% del gettito pubblicitario della Rai (allora emittente unica: un provvedimento similare sul gettito pubblicitario odierno di emittenti e testate web, che si aggira sui 6 – 7 miliardi di euro l’anno, contribuirebbe fortemente a mettere in sicurezza l’Inpgi).
Un libro imprescindibile per chi si occupa di Storia del giornalismo e per i giornalisti che credono nel giornalismo come professione intellettuale e non come mestieraccio, ma anche per i cultori di Storia contemporanea e di politica. (giornalistitalia.it)
Giuseppe Mazzarino