MANTOVA – «Se tu non sai chi tu sei, gli altri si arrogheranno il diritto di dirti chi tu sei. Il che significa che si arrogheranno il diritto di dire e fare di te quello che loro vogliono che tu sia. Non può essere, perché quello si chiama schiavitù. Io ho un nome e voglio essere chiamata con il nome che dico che è mio, mi spiego, non devi essere tu, perfino a dirmi di che colore è la mia pelle».
A volte ritornano, e quando lo fanno, lo fanno con grande rumore. Oggi è il caso di Geneviève Makaping, una vera e propria forza della natura. Ve la ricordate? In Calabria per anni è stata una bandiera della diversità, un’icona del multiculturalismo, un’intellettuale che aveva sovvertito i canoni tradizionali del confronto mediatico, una giornalista che aveva dimostrato sul campo di essere una prima donna e un numero uno.
«Per una vita mi sono sentita ripetere “È una ragazza di colore”. Di quale colore? Tu non ne hai? È una ragazza nera. Va beh, vogliamo definirci per il colore della nostra pelle? Allora non offenderti se passi davanti a casa mia e io ti dico “oh guarda c’è un bianco che sta passando”. Ma che modi sono? Perché gli altri devono sottostare a questo? Chiamateli col loro nome. Se non conoscete il loro nome chiedeteglielo, se non lo volete chiedere, chi se ne frega, questo è».
Senza peli sulla lingua, senza fronzoli, senza mediazione alcuna, con acume e con severità per anni ha raccontato la cronaca cosentina – e poi quella calabrese – con una schiettezza e un coraggio che le avevano procurato minacce e querele di vario genere, ma lei tosta come un muro andava avanti da sola e senza remore.
«Non scrivere per favore che sono una donna di colore. Questo termine, “di colore”, non va bene. Non va bene né antropologicamente, né ideologicamente, nè “politicamente”. Io preferisco “negra” come lo scrivo nei miei libri, ben sapendo di provocare “scompiglio”. Ma caro Pino se solo io sono “di colore” voi di quale colore siete? I cinesi e i giapponesi? E gli indiani d’America? Tutti i meticciati del mondo che colore hanno? Ma boh, allora un compromesso potrebbe essere “nera”. Premesso che “negro” è latino. E poi non ce l’ho messa io la connotazione negativa! E la storia Negro-africana, il movimento della “Negritudine” li gettiamo alle ortiche?».
Per la storia del giornalismo italiano è stata la prima donna “nera” a dirigere un quotidiano italiano, La Provincia cosentina (2004-2007) e un canale televisivo, Metrosat (2004-2010), dove la televisione era la sua faccia, il suo modo di raccontare la realtà quotidiana di una regione dove le “paludi” non sono mai scomparse sul serio e dove il rischio di finire male è “aria che si respira”.
«Quando dissi “Voglio essere io a dire come mi chiamo”, cercavo di parafrasare un discorso molto articolato di Malcom X. A un certo punto dicevo “Chiamatemi negra”, in senso un po’ provocatorio: negra non è che l’ho inventato io, lo dicevano i latini e lo dicono tuttora gli spagnoli e i portoghesi per dire “nero”. Quindi se tu hai la coscienza tranquillissima, io ti dico sono negra, perché la cosa brucia a te? Non ho capito: la pelle è mia! Questa cosa del voler apporre il marchio sugli altri… ma basta! Oggi i giovani, i miei studenti, parlo specialmente di quelli dell’università, sono così cresciuti e mi scrivono “Ma prof, ci hai aperto gli occhi, ma cosa è sta roba, ma quanto stavamo nel buio, quando pensavamo che solo noi potessimo nominare, dare un nome agli altri”».
Noi allora la chiamavamo semplicemente Jenny, e ricordo che quando Jenny arrivava era capace di sovvertire ogni regola della narrazione corrente. Aveva un modo tutto suo per raccontare la vita e la storia dei calabresi, e aveva soprattutto questo suo sorriso disarmante che usava per le mille denunce della sua vita di cronista. Quasi iconiche le sue partecipazioni al Maurizio Costanzo Show o le sue “lezioni di vita” a “La Vita in Diretta” che allora andava in onda su Rai Due.
Poi, improvvisamente, nel 2010 Jenny scompare dai radar della comunicazione calabrese, ma perché «non si può vivere eternamente di bolle di sapone», e l’unica scelta possibile che le rimaneva per continuare a vivere in Italia era tornare all’insegnamento.
Oggi lei è docente a contratto di lingua e cultura francese nella Fondazione Universitaria di Mantova e insegna lingua e cultura inglese nelle scuole superiori di Mantova e provincia dal 2013.
Nata in Camerun, Geneviève Makaping vive in Italia dal 1982, e qui in Italia ha conseguito un dottorato di ricerca in “Tecnologie didattiche multimediali e sistemi di comunicazione” all’Università della Calabria, dove ha insegnato antropologia culturale nella Facoltà di Scienze Politiche dal 1999 al 2012. È giornalista pubblicista iscritta all’Ordine dal 26 ottobre 2002.
Una scheggia come poche, una professoressa di altissimo profilo, come cronista una vera e propria macchina da guerra. Spero solo che qualcuno, il suo editore Rolando Manna per esempio, abbia fatto conservare le sue trasmissioni più seguite, i suoi interventi più accesi, i suoi editoriali, perché la crescita di intere generazioni in Calabria è rimasta certamente segnata anche dalle cose che Jenny per anni ha spiegato e ha raccontato in televisione e sul giornale che dirigeva.
Ricordo che una mattina – era il 2001 e da qualche mese ero caporedattore della Sede Regionale – mi venne a trovare in Rai per portarmi il suo primo libro, “Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi?”. Glielo aveva stampato Florindo Rubbettino, era un testo autobiografico e insieme una riflessione antropologica sul razzismo in Italia.
Voleva che ne dessi notizia, ma io feci molto di più, le chiesi un’intervista, e da quel giorno Jenny diventò per noi in Rai una sorta di consulente privilegiata sui temi dell’immigrazione.
– Jenny, cosa ti porti dentro ancora di tutti questi anni di giornalismo in Calabria?
«La mia esperienza in Calabria è stata la più grande scuola di giornalismo che potessi immaginare di frequentare. Alto giornalismo, non dei raccontini per fare piacere “aru cumpare o ara cummare”. Non sorridere, ti prego, ma parlo ancora un “cosentino” che forse solo i miei amici calabresi riescono a comprendere. Una grande scuola, dicevo, sul campo, sul terreno, tra la gente. La mia storia con la Calabria è una storia d’amore.
A distanza di tanti anni ancora mi scrivono chiedendomi di ritornare. E io rispondo loro che, io Maka, figlia di Calabria, rientro perfettamente nelle statistiche più accreditate.
Infatti, una buona parte (troppa) dei giovani calabresi verso i 28-30 anni (dopo la laurea) deve migrare altrove e non solo al Nord come ho fatto io. Dopo trent’anni è toccato anche a me di fare le valigie. Cosa offre la Calabria ai suoi giovani uomini e donne? Niente. Assolutamente niente. Vergogna! Posso dirlo? Non so se tu invece puoi scriverlo. Ma noi che siamo andati via dalle nostre terre – perché considero la Calabria la mia terra naturale – non ci perdiamo mai, sai. Noi siamo dei semi e andiamo in giro per il mondo a fecondare con questi semi che portiamo nel cuore e nell’anima. Il nostro è un bagaglio di sofferenze che, però, fanno rima con speranze».
– Insomma, parentesi chiusa per sempre quella della cronista?
«Ahah, cosa hai capito? Mica sto qui a fare un requiem per la Makaping giornalista, che ovviamente non può svolgere come prima la professione a tempo pieno. Una cosa te la dico sul serio, però. Aspettate che io vada in pensione e vedrete la fenice che risorge. Ora, è vero, sono un’insegnante ma dovreste vedere il rapporto che ho con i miei studenti e le mie studentesse. C’è chi ogni mattina vuole che ci abbracciamo, ci sono quelli che più teatralmente mi fanno il saluto stile “Wakanda” (braccia incrociate sul petto), tanti altri mi salutano con i pugni chiusi. E tutto questo avviene ogni mattina nel giro di cinque minuti. Pino capisci? Abbasso gli stereotipi e i pregiudizi. Chi diceva che quelli del nord sono più freddi? Sai, sto facendo una esperienza che per una “osservatrice partecipante”, per dirla con le Scienze sociali, è un materiale inestimabile e inedito».
– Posso chiederti qual è stato il giorno più brutto della tua esperienza di direttore responsabile della Provincia cosentina?
«L’unico ricordo brutto che ho di quella stagione così felice per me fu l’uccisione di Maria Rosaria Sessa, ottima giornalista molto promettente, per mano del suo ex fidanzato che poi si suicidò: “femminicidio”. Orribile sai, una esperienza umana terribile, tragica, devastante anche per noi che ogni giorno cercavamo la verità».
– Nient’altro Jenny?
«Tante minacce, anche in quegli anni, per il modo in cui facevamo il nostro lavoro, e tante le lettere anonime che mi giungevano in redazione. E poi le querele. A iosa.
Ma noi andavamo avanti lo stesso, convinti che era quello il nostro dovere: informare e raccontare. E l’indomani, sulle storie losche di tanti loschi personaggi del tempo, ci facevo le locandine che facevano il giro dell’intera provincia. E ricordo che le telefonate in redazione si moltiplicavano giorno dopo giorno. “Ma guarda tu chista, chi ti credi di essere? Ti faremo vedere. Pagherai. Camminerai in mutande”. E queste erano le intimidazioni forse più gentili».
– Se potessi rincontrare i tuoi compagni di lavoro cosa diresti loro?
«Una sola parola, “Grazie”. E poi fammelo dire, la mia gratitudine va a tutti i colleghi giornalisti delle varie redazioni presenti sul territorio, la Rai, La Provincia cosentina, Metrosat, il Quotidiano, Ten, la Gazzetta del Sud, all’ingegnere Rolando Manna (il mio editore a cui va la mia profonda gratitudine), i grandi maestri del giornalismo (ne cito uno per tutti, Emanuele Giacoia, che molto mi incoraggiava), grandi firme e belle penne calabresi, i miei editorialisti (ne cito due per tutti: Maurizio Costanzo che mi voleva spesso in collegamento per la sua rassegna stampa, e Vincenzo Ziccarelli, il più grande drammaturgo calabrese, che addirittura si offrì spontaneamente), ma soprattutto grazie ai lettori e ai telespettatori che hanno creduto in me e in tutti noi. È questa la vera grande magia di chi fa questo nostro mestiere, non credi?».
Vi dicevo “A volte ritornano”. Questa volta per via di un film, ”Maka”, che sta facendo discutere il mondo dell’antropologia, quello del cinema, non solo italiano e europeo ma anche americano e che racconta e ricostruisce in maniera quasi poetica la sua storia personale e professionale.
La storia di Geneviève Makaping, che è la storia di un’antropologa immigrata dal Camerun in Italia, ma è anche un pò la nostra storia.
Un film – dice lei – «che ci racconta in tante lingue diverse di identità e appartenenze multiple, ci fa comprendere cosa si prova ad essere neri in una società di bianchi, ci fa viaggiare in posti lontani. Ci parla di noi e ci parla degli “altri”, ma soprattutto ci invita a pensare come sarebbe se gli “altri” fossimo noi».
Scritto a quattro mani con Simone Brioni, diretto da Elia Moutamid, prodotto da “Stony Brook University, 5e6 film”, “Maka” racconta al grande pubblico la storia della prima donna nera ad avere ricevuto un dottorato di ricerca in Italia, ad essere diventata cittadina italiana “per merito”, con atto firmato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi che, durante un incontro all’Università della Calabria, le disse: “Ma Lei è il sole!”. La prima ad essere diventata direttore di un quotidiano. Un record tutto suo, che non sarà facile portarle via.
«Maka – spiega Simone Brioni – è un film che parla dell’impossibilità di raccontare una donna così complessa come Geneviève Makaping. Sono rimasto folgorato dalla lettura di “Traiettorie di sguardi”, un testo straordinario che ci invita ad interrogarci sul modo in cui parliamo e guardiamo all’altro e all’altrove. È incredibile come il testo di Makaping sia tradotto e studiato all’estero ma il suo lavoro non sia ancora molto conosciuto in Italia. Per scrivere il documentario ho guardato le registrazioni di numerosi interventi di Makaping in trasmissioni di successo realizzate all’inizio del nuovo millennio come “La vita in diretta”, il “Maurizio Costanzo Show” e “Buona Domenica”. Questo repertorio mostra come la qualità̀ del dibattito televisivo fosse arricchita dalla presenza di una donna nera, curiosa, brillante, ironica, competente. A distanza di vent’anni è scoraggiante notare quante poche persone nere appaiano in televisione e quanto il dibattito sia poco attento a non cadere in discorsi velatamente o apertamente razzista».
– Jenny, cos’è in realtà per te questo film?
«È un documentario autobiografico. La storia di Maka è la mia storia personale, che alla fine è una storia dolorosa di migrazione dal Camerun attraverso il deserto e l’arrivo in Calabria, nel 1982, in seguito alla tragica morte del mio compagno di viaggio.
È anche il racconto del mio successo come giornalista e conduttrice televisiva, e poi ancora il racconto del mio trasferimento dalla Calabria in Lombardia e la mia vita attuale, soprattutto come insegnante a Mantova. La storia di Maka offre lo spunto per ripensare l’appartenenza nazionale e il modo in cui la percezione della nerezza si sia modificata in Italia negli ultimi quarant’anni. Applicando alla realizzazione del film il metodo di ricerca antropologica, il film interroga il modo in cui la nostra percezione dell’Italia di oggi cambi se vista dalla prospettiva di una donna nera».
Geneviève ha firmato questo film con Simone Brioni ed Elia Moutamid. Ma chi sono Simone Brioni ed Elia Moutamid?
Simone Brioni ha scritto e co-diretto tre film sulla memoria e l’eredità coloniale italiana e sull’opera di scrittrici italiane postcoloniali: La quarta via (2012), Aulò (2012) e Oltre i bordi (2023). Oggi lui insegna cinema e letteratura della migrazione presso l’Università Statale di New York a Stony Brook ed è lo studioso che ha curato la nuova edizione di “Traiettorie di sguardi. E se gli altri foste voi?” che Florindo Rubbettino ha ripubblicato nel 2022. Ora ne è nata anche una versione in inglese – ad opera di Giovanna Bellesia-Contuzzi e Victoria Offredi Poletto – “Reversing the Gaze. What if the Other Were You? (Rutgers University Press, 2023). Insomma, un successo dietro l’altro.
Elia Moutamid è, invece, un regista di numerosi cortometraggi e due lungometraggi di ispirazione biografica: Talien (2015) e Kufid (2020). Il suo cortometraggio Gaiwan ha partecipato da finalista a più di 75 film festival internazionali — tra cui Cannes 68 nella sezione Short Film Corner (Francia), Paris Court Devant (Francia) e all’ICFF (Canada)— ottenendo una trentina tra premi e riconoscimenti. Talien è vincitore di prestigiosi riconoscimenti. Tra questi il Gran Premio della Giuria al Torino Film Festival (2017), “Gli occhiali di Gandhi” (TFF2017) e una menzione speciale come miglior regista esordiente ai Nastri d’Argento 2018. Kufid è stato presentato al Torino Film Festival, al Festival del Cinema Africano, Asia e America Latina di Milano, al Bridge Film Festival di Verona e ai Nastri d’Argento nel 2021.
«Maka – spiega Simone Brioni – è un film che racconta, da Mantova e attraverso immagini e video di repertorio, un percorso biografico che si snoda tra Camerun, Francia, Calabria e Lombardia. Ma il film non si limita a farci entrare nella vita e non si limita a farci conoscere le esperienze della sua straordinaria protagonista. Maka vuole anche interrogare gli spettatori e le spettatrici sul complesso gioco di sguardi coinvolto in ogni interazione umana e sul potere che lo sguardo del cinema ha di creare o mettere in discussione un immaginario razzista.
Realizzare Maka ha voluto dire imbarcarsi in un’esplorazione collettiva e personale sulle parole che usiamo per parlare di alterità, sul privilegio di essere cittadini del Paese in cui si abita e di non conoscere cosa vuol dire essere oggetto di sguardi indesiderati o curiosi, che spesso sono stati rivolti alla protagonista di questo documentario».
«Una delle sfide di Maka – aggiunge il regista Elia Moutamid – è stata anche quella di raccontare un territorio che credevamo di conoscere molto bene, ma che Geneviève Makaping ci ha aiutato a riscoprire o a riconsiderare dalla sua prospettiva. Abbiamo visitato Mantova innumerevoli volte, ma lo sguardo di Geneviève Makaping ci ha fatto notare come i dipinti nei suoi più famosi palazzi raccontino la presenza della cultura nera nell’Europa del Rinascimento. Ma soprattutto Geneviève ci ha fatto conoscere la comunità variegata a cui appartiene e ci siamo resi conto che questo microcosmo è già un modello, pur con le sue contraddizioni e idiosincrasie di società multiculturale. Ci siamo spesso interrogati su come vorremmo che fosse l’Italia che desideriamo per il futuro, ed abbiamo notato con sorpresa che forse l’Italia che immaginavamo già esisteva in questo angolo di mondo.
Io stesso, italiano figlio di migranti nordafricani, mi interrogo su come guardo agli stranieri e sulla percezione che altri italiani hanno di me. Ecco, l’intento di Maka è stato quello di testimoniarne la presenza».
Non avevo dubbio alcuno quando il direttore di Giornalisti Italia, Carlo Parisi, mi disse: «Chiamala! È un raggio di sole che riesce a illuminare le tenebre più fitte. Parlate di Maka, il film che oltreoceano è già un successo, come lo è il suo libro che hanno già adottato alcune università americane; ma soprattutto racconta la storia di una donna eccezionale che, con il sorriso sulle labbra, insegna a trasformare il dolore in speranza».
Jenny ha ancora voglia di stupirci e soprattutto ha ancora la forza di emozionarci. Non poco e non solo. Ha, infatti, aderito con convinzione alla Figec Cisal, il nuovo sindacato unitario dei giornalisti e degli operatori dell’informazione, della comunicazione, dell’arte e della cultura.
– Jenny perché ti sei iscritta alla Federazione Italiana Giornalismo Editoria Comunicazione?
«La risposta è semplice. Conosco moltissimi dei dirigenti e degli iscritti anche per averli “osservati” nel corso di una ventina di anni. Conosco i loro modi di fare giornalismo ma soprattutto conosco il loro tipo di approccio. Si tratta di persone che non hanno mai gettato la loro umanità alle ortiche. Reporters che, da che li conosco, hanno posto al centro della loro “missione” l’umanità altrui. Il giornalismo e il giornalista veri non sono delle entità fredde alla ricerca dello scoop. Il giornalismo, per come lo intendo io, è molto vicino alla cultura orale. È il racconto quotidiano dell’umanità attorno a noi. Figec mette al centro della sua attenzione la persona del giornalista. Ditemi voi se non è approccio antropologico questo! Chi sta dalla parte della “persona” è un individuo socialmente e politicamente schierato. Per finire, io voglio vivere in mezzo alle persone che amo e di certo so di esserne ricambiata. Nella vita ho imparato che la tossicità dei luoghi può nuocere all’agire delle persone, alla loro moralità, alla loro etica. L’ho imparato leggendo la teorica africano-americana che ha scritto il magnifico libro “Elogio del Margine”, bell hooks. Una divulgatrice che si firma con lettere minuscole». (giornalistitalia.it)
Pino Nano