ROMA – 28 novembre 2024, Sala Koch del Senato: tutto esaurito. Parterre delle grandi occasioni per un compleanno del tutto speciale, quello della Legge-Gasparri che compie 20 anni. Quale ricorrenza migliore di questa per discutere di “Editoria e media nell’era digitale”? Ma, soprattutto, quale migliore occasione di questa per una “Riflessione a 360 gradi sul futuro a 20 anni dalla Legge Gasparri”?
Padrone di casa non poteva che essere lui, il sen. Maurizio Gasparri, presidente del Gruppo di Forza Italia al Senato e padre storico della Legge che porta il suo nome. In Sala Koch c’è, poi, il gotha del mondo del giornalismo e della comunicazione italiana. Dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’informazione e all’editoria, Alberto Barachini, all’amministratore delegato di Rcs MediaGroup, Urbano Cairo, dal presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, all’amministratore delegato della Rai Giampaolo Rossi, dal presidente della Fieg Andrea Riffeser Monti al presidente della categoria “editori di giornali quotidiani” della Fieg Francesco Dini. Insomma, un’occasione davvero molto speciale, solenne più che mai, per ragionare di Rai, del suo attuale management e del suo futuro, ma soprattutto per parlare dei mille problemi legati oggi al Sistema-Comunicazione-Paese, dove a gran voce e a più voci è stato chiesto un incremento dei fondi pubblici al mondo dei giornali e dell’editoria «per riaffermare nel Paese – afferma lo stesso Maurizio Gasparri – quel concetto di indipendenza e di libertà senza della quale una democrazia matura come la nostra rischia di morire».
– Presidente Gasparri, lei continua ad occuparsi di televisione e, soprattutto, sta lavorando all’idea di una nuova riforma della Rai. Lungo quali sentieri?
«Le nostre proposte di riforma non sono la riforma del servizio pubblico radiotelevisivo, ma sono la riforma dell’intero sistema delle comunicazioni. Perché sarebbe riduttivo occuparsi soltanto della questione Rai. La Rai, mi creda, è solo un capitolo della vicenda, non è la vicenda centrale come da più parti si tenta di spiegare. Noi, le ricordo, abbiamo fatto una riforma del sistema delle comunicazioni entrata in vigore nel 2004, la cosiddetta legge Gasparri che regolamenta anche la vicenda della Rai. E a suo tempo io mi sono uniformato alle sentenze della Corte Costituzionale. Questa è la prima affermazione che vi prego di annotare».
– Non credo che nessuno abbia mai messo in dubbio questo…
«Vede, adesso si dice che bisogna adeguare la legge alla posizione europea. L’Europa ha emesso l’European Media Freedom Act, che ci dice che l’informazione deve essere plurale, deve essere indipendente. In realtà contiene delle affermazioni di principio molto generiche che io condivido, ci mancherebbe altro. Però la Corte Costituzionale ha detto molto di più in Italia. Quindi, così come ci siamo uniformati dal 2002 al 2004 con la riforma che facemmo alle sentenze della Corte, così anche oggi nella nostra proposta ci uniformeremo a quelle sentenze».
– Ci ricorda come nacque la Legge Gasparri?
«La Corte nel 1974, con la sentenza del 14 aprile numero 225, aprì la strada verso la parlamentarizzazione perché disse che è il Parlamento che garantisce il pluralismo.
Il governo è di una parte, che vince o perde a seconda dei risultati, mentre in Parlamento ci sono quelli che vincono e quelli che perdono. E si fece così la riforma del 1975. La Corte torna poi nel 1987, con la sentenza numero 194, e dà dignità costituzionale alla Commissione parlamentare di vigilanza. Perché dando al Parlamento la centralità, la Commissione era di fatto l’organo in cui ci sarebbero stati dentro tutti, in proporzione naturalmente ai risultati elettorali».
– Quella stessa legge decise anche che la Presidenza della Vigilanza spettava all’opposizione?
«È una prassi, non è una legge. La Presidenza della Vigilanza va all’opposizione per una semplice prassi istituzionale. La legge c’è per il Copasir, ma per la Commissione di Vigilanza della Rai è soltanto una prassi. È insomma una scelta politica di garanzia. In realtà non esiste nessun obbligo a dare la Presidenza all’opposizione».
– Dopo il 1987 cosa succede?
«La Corte ridice nell’87 che sostanzialmente il tutto va strutturato nell’orbita del Parlamento, parlando soprattutto del vertice della Rai e citando l’articolo 21 della Costituzione. Quindi, la Corte dice tutto questo dal ’74 all’87. Dopodiché, nel 2008, 21 anni dopo, fanno un’ordinanza e una sentenza nel 2009. L’ordinanza è la 61 del 2008 e la sentenza è la 69 del 2009».
– Cosa determinò questa svolta?
«A un certo punto il governo Prodi caccia Petroni dal Consiglio di amministrazione della Rai, che era stato designato da un governo precedente. La Corte dice “tu non lo puoi cacciare perché deve decidere il Parlamento”. Quindi, taglia le unghie al governo nel 2009. Dopodiché, l’ordinanza n. 61, che è del 2008, parla di affermazione della centralità del Parlamento nel governo del sistema radiotelevisivo pubblico, cioè riafferma la centralità del Parlamento. Quindi, dal ’74 al 2009, ci sono 35 anni di sentenze e ordinanze della Corte Costituzionale dalle quali noi non ci distaccheremo mai, e non consentiremo mai che ci si distacchi, perché è un orientamento costante della Corte Costituzionale nei decenni. Poi le leggi sono cambiate».
– Qual è l’elemento della sua legge di cui va più fiero?
«Per un periodo i membri del Cda della Rai li designavano i presidenti di Camera e Senato. Poi con la legge che ho fatto io – che entrò in Parlamento senza la norma sulla Rai, non perché ci eravamo distratti ma perché io dissi che quella norma doveva nascere dal dibattito parlamentare e così fu – fu aggiunto un articolo che affidava non più ai presidenti di Camera e Senato ma alla Commissione di Vigilanza, che è un Parlamento in dimensioni ridotte e bicamerale, l’elezione della maggioranza dei membri del Consiglio, con l’eccezione di uno o due. E il presidente designato dal Governo doveva avere, come oggi, i due terzi della vigilanza, quindi ancora più parlamentarizzato, sottratto al potere di scelta della maggioranza e affidato a un consenso più ampio di due terzi».
– Finché non arriva Matteo Renzi…
«Si, è vero. Arriva Renzi. La sinistra oggi protesta per la centralità del governo. Ma chi l’ha voluta la centralità del governo? Il Partito Democratico. Segretario era Matteo Renzi, e nel 2014 cambia parzialmente la legge Gasparri e dice: “non c’è più il direttore generale, che non faceva parte del consiglio di amministrazione, partecipava ai Cda ma non votava, votavano i consiglieri di amministrazione, il direttore generale proponeva.
La legge Renzi modifica in parte la Gasparri e introduce un amministratore delegato che diventa membro del consiglio con poteri molto forti, nominato dal governo. Primo scoop, il Partito Democratico è andato contro le sentenze della Corte dando il potere al Governo di scegliere l’amministratore delegato, con un Consiglio che esiste ma depotenziato, eletto non più dalla Vigilanza ma dalle aule del Parlamento. Questo aspetto rispetta le sentenze della Corte che parlano del Parlamento ma non dicono quale degli organi. Però con il Partito Democratico che oggi protesta si introduce questa forzatura».
– Memorabile, presidente, fu la sua protesta…
«Io, che ero in Parlamento, all’epoca intervenni. Votai contro. Andate a vedere gli atti parlamentari, dissi “questa cosa è sbagliata”. Ma la Corte non se ne è occupata, non ha mai detto che va bene. La questione non è mai approdata in seno alla Corte, quindi nessuno si pronuncia».
– Alle cose che lei disse in Parlamento seguì anche un’azione più prettamente parlamentare?
«Nella scorsa legislatura presentai una proposta per cancellare le norme Renzi e tornare alla legge Gasparri: consiglieri eletti dal Parlamento, il presidente proposto dal Governo, ma deve avere i due terzi, e un direttore generale che sceglie il Governo, ma non è consigliere di amministrazione e ogni sua proposta deve essere votata dal Consiglio di amministrazione che la può respingere. E quindi, si rispettava la sentenza della Corte. Sono io che proposi di abolire questa bardatura del Pd».
– Come andò a finire?
«Ovviamente la proposta non venne mai approvata e io riproposi questa stessa proposta di legge – non era stata ancora composta la vigilanza Rai, quindi c’era solo la mia firma al Senato – il 13 ottobre del 2022. Questo dimostra che non c’entra niente una specifica persona. Noi non vogliamo eliminare nessuno. Noi diciamo, invece, che si deve tornare a una funzione in cui il governo non è più il dominus del sistema. Quindi la prima proposta di Forza Italia è stata questa, ed è ancora all’ordine del giorno. Per “tornare allo ”, direbbe Sidney Sonnino, “alla Costituzione”. Già basterebbe questa, mi creda, che è in linea con l’Europa ma soprattutto con le sentenze della Corte».
– Una Rai nominata dal Parlamento, dunque, e basta?
«Il nuovo management della Rai sulla terra o la portano i marziani, o la nomina il Parlamento. La prego di scriverlo con chiarezza, noi non daremo mai spazio a proposte dittatoriali tipo “il vertice della Rai lo sceglie una fondazione”».
– Perché questa preclusione a priori?
«Perché nessuno ha mai risposto alla domanda più scontata e che è questa: “chi è la fondazione? Chi sono i membri della fondazione? Chi li sceglie? Al Parlamento ci si può anche buttare un pitale sopra, come fece quell’aviatore dannunziano partendo da Fiume, però il Parlamento lo eleggono i cittadini, E quindi può piacere o può non piacere. Ma chi è la fondazione che sceglie? Le università? lo francamento vedo in giro sempre gli stessi cognomi nelle università, i padri, i figli che fanno i rettori, i nipoti e quant’altro. Quindi noi riteniamo che la Corte abbia ragione. L’azionista sostanziale è il Parlamento. È la democrazia. Non le fondazioni. Tanto meno le elucubrazioni di qualcuno».
– Con chi ce l’ha, presidente?
«Con nessuno davvero, ma non si capisce, in questo caso, chi è e quale è la base democratica del Paese. Ci sono proposte che parlano della Fondazione. Bene, ma chi la fa la fondazione? Il Pd? Il sottinteso è questo. Quindi non ci saranno fondazioni per quello che ci riguarda, e non ci saranno astrazioni. Ci saranno, questo sì, la democrazia e il Parlamento. Solo così faremo salvo il principio della Corte Costituzionale. Quindi sulla Rai questo è quanto. Poi discuteremo, faremo, vedremo. I presidenti, la vigilanza, le aule. Ma la Corte Costituzionale questo ha detto nel ’74, nell’87, nel 2008 e nel 2009. E se gli chiedessimo ancora oggi cosa ne pensa ci direbbe la stessa cosa di allora».
– Si batterà fino in fondo per questo obiettivo?
«Chi mi conosce sa bene che non mi fermo mai se sono convinto di una scelta. Però il tema su cui invito alla riflessione non è solo questo. Perché, vede, se noi facessimo una leggina solo per risolvere la questione della Rai, avremmo una corta veduta. E perderemmo la visione generale del problema».
– Come crede di uscirne allora?
«Noi faremo una legge. Quindi oltre all’articolato che esiste ne presenteremo altri nei prossimi giorni. E presenteremo una proposta che riguarda il sistema delle comunicazioni nella sua complessità e nella sua globalità. Questo significa lavorare al servizio del Paese e della democrazia. Le ricordo che quando abbiamo fatto la legge nel 2004 – allora il dibattito riguardava Mediaset, Berlusconi, e il governo Berlusconi – io dissi che per calcolare i limiti antitrust non si poteva parlare solo di televisioni o di giornali.
Ci sono dei limiti settoriali, però bisognava guardare all’intero sistema. Allora proposi il Sic che vige in Italia, e che è il Sistema Integrato delle Comunicazioni. Oggi nessuno può avere più di una certa percentuale di questo sistema. La legge è stata approvata e la Corte non ha mai avuto nulla da dire in 20 anni di vigenza, mentre la proposta Renzi – quella sì è incostituzionale – è quella del Pd che dà i poteri al governo».
– Presidente, ricordo che anche allora le polemiche furono molto aspre…
«Forse era anche inevitabile. Quando si affrontò il tema del Sic, i giornali dell’epoca, ma forse è meglio dire dei cronisti ignoranti, scrissero: Gasparri allarga il Sic mettendoci tutto dentro perché più è larga la torta, meno si nota la fetta di Berlusconi. Se la torta è mille, la fetta di Berlusconi sarà 40, quindi si nota di meno. Se la torta è piccola, Berlusconi è dominante e cattivo. Mi prendevano per i fondelli, e sa perché? Perché nel Sic avevo messo internet con la televisione».
– Ce lo spiega meglio presidente?
«Vede il mio smartphone? Non esisteva nel 2004. Oggi invece io con lo smartphone posso sentire la radio. Dopodiché spengo la radio, e se voglio vedere la Rai ho l’applicazione per vedere la Rai. Questo è il Sic. Sul telefonino leggo i giornali. Sul telefonino mi arriva la pubblicità. Addirittura, a me qualche volta è arrivato un messaggino preceduto da 15 secondi di pubblicità. Le è mai successo? Quindi anche la pubblicità sta qui dentro. Quindi noi abbiamo fatto una legge, che guardava in avanti e regolava il sistema antitrust, prevedendo che si sarebbero incontrati internet e la televisione. Quindi il tema è che noi abbiamo fatto una legge che guardava avanti, e non per fare un favore a Mediaset».
– Presidente, oggi il mondo è cambiato. Sono arrivate le piattaforme, Amazon, Prime, è arrivato Netflix. Come vede lei il futuro del nostro mondo?
«Per guardare al futuro, i punti del testo ulteriore che Forza Italia sta presentando sono diversi. Il tema fondamentale per noi è salvaguardare il ruolo dei media nazionali, di cui va tutelata l’indipendenza. Parlo anche di giornali e agenzie di stampa, vittime ormai del quotidiano saccheggio digitale. Non è corretto e non è giusto quello che è sotto gli occhi di tutti noi. Quindi, noi dobbiamo tutelare la Rai, i media, e chiunque altro, dal saccheggio digitale che fanno oggi i colossi della rete, favoriti da una tecnologia abbastanza semplice. Non è che ci vuole un hacker per fare certe cose, basta anche un ragazzino. E quindi la vera tutela dell’indipendenza è l’indipendenza dai giganti del web. Perché, vede, come eleggeremo i consigli di amministrazione della Rai questo lo discuteremo tutti insieme, ma se lasceremo il mondo della comunicazione saccheggiato da Amazon, da Google, da questi mostri sacri della rete, quale indipendenza alla fine avremo salvato? Mi dice perché gli editori dovrebbero pagare stipendi a dei giornalisti i cui contenuti viaggiano poi gratis sulla rete, rubati, perché non c’è una tutela adeguata? Quindi, oggi il nostro compito fondamentale è quello di tutelare questa vera indipendenza della creatività, del lavoro, dell’inchiesta, della mission dell’inviato che va in Afghanistan e non guarda da casa montando quattro video, cosa che oggi invece molti fanno».
– Quindi lei teme molto di più, mi pare di capire, la concentrazione dei media?
«Sulla concentrazione dei media, non c’è dubbio, dobbiamo stare in guardia. Le faccio un esempio. “Quante reti ha la Rai?” chiede spesso la gente comune. Volevano mandare Retequattro sul satellite. Ci sono state discussioni surreali in questo paese. Oggi la Rai quante reti ha? Pensiamo che ne abbia tre. In realtà non ne ha tre, ma ne ha invece numerosissime. Poi quelle più popolari sono quelle che conosciamo meglio: Ma se domani la Rai mette il Festival di Sanremo su Rai Yo-Yo, Rai Yo-Yo sarà al 20% di share. Se mettono i mondiali di calcio su Rai Premium, sarà la stessa cosa. Dipende dunque da dove metti i contenuti. È chiaro, alla fine si mettono sulle reti più importanti perché il pubblico è abituato a questo. Ma lei lo sa che in America stanno discutendo di spacchettare Google?».
– Di cosa parla più esattamente?
«Parlo di quello di cui oggi si parla in America, dove hanno spacchettato le sette sorelle petrolifere degli anni 50 diventate poi società di telecomunicazioni. Nella patria del liberismo vero accade, a un certo punto, che qualcuno si accorge che “queste sono troppo grandi”. E non erano in Unione Sovietica. È accaduto, quindi, che la patria del capitalismo ha detto ai grandi gruppi del Paese “siete troppo grandi” e li hanno così spezzettati. E adesso giustamente si è aperto un dibattito su Google. Ecco, di questo parla oggi l’America, Non di chi fa il vicedirettore della Tgr, che spesso e volentieri sembra l’angoscia più grave di cui dobbiamo discutere in Italia. Lo sorteggeranno magari il vicedirettore della Tgr, ma qui oggi il vero tema del momento e del futuro prossimo è quello delle concentrazioni, che noi vogliamo affrontare mettendo molto altro nel Sic».
– Per esempio, presidente?
«Noi all’inizio di questo processo non mettemmo le società di telefonia nel Sic. Ma secondo voi si possono non mettere nel Sic le società di telefonia? Dove viaggia tutta questa roba? Perché le faccio questa premessa? Perchè oggi noi vogliamo aggiornare questo campo, ma solo perché oggi questo campo si è molto allargato. Ma vogliamo anche difendere i contenuti. Abbiamo avuto una direttiva europea sul diritto d’autore. L’Italia l’ha recepita, ma non è sufficiente. Ci vuole a mio giudizio una difesa molto più forte dei contenuti giornalistici, di quelli della televisione, degli stessi autori. Perché oggi la tecnologia purtroppo li rende facilmente aggredibili».
– Mi pare di capire che di carne al fuoco ce n’è ancora tanta…
«Un esempio per tutti? Come si fa a non regolare l’arrivo dell’intelligenza artificiale? Mi tremano i polsi solo a pensarci. Mi domando, ma riusciremo alla fine ad avere norme di difesa sufficienti? Questo è il vero tema centrale del momento, non altri. Lo vogliamo affrontare o preferiamo continuare a parlare del vicedirettore della Tgr? Oggi, le ripeto, dobbiamo rendere più sicuro l’ambiente di Internet. Quando abbiamo fatto la legge Gasparri, poi diventato testo unico, abbiamo introdotto il comitato tv e minori e abbiamo introdotto nella legge il codice di autoregolamentazione a tutela dei minori. Oggi invece dobbiamo porci il problema di una maggiore tutela nell’accesso alla rete».
– Non c’è il rischio di una limitazione della libertà?
«Noi siamo una grande democrazia occidentale, questo ormai lo sanno tutti, però non possiamo nemmeno far passare tutto e il contrario di tutto. Il tema non è facile ed è molto complesso. Ecco perché vogliamo rafforzare le possibilità di intervento dell’Agcom. Ma vogliamo anche avere nuove norme per le produzioni nazionali italiane. Questo è un vecchio problema. La Francia è la patria dell’eccezione culturale. La Francia, con tutti i problemi che ha, ha fatto una norma bellissima per cui se tu compri un libro online paghi 3 euro di tassa. Perché l’hanno fatta? Per proteggere gli editori, per proteggere le librerie. E hanno fatto bene. Perché poi per quelli che comprano online il libro costa di meno e le librerie chiudono. Ci sono i libri che escono direttamente online. Quindi il tema della tutela delle opere italiane, senza impedire l’accesso delle opere internazionali. Non vogliamo l’autarchia. Però se tu dai dei contributi pubblici devi anche mettere una riserva, una percentuale per opere italiane, sennò arrivano, come sta succedendo adesso, i colossi della multimedialità, che poi sono sempre gli stessi, che si prendono anche i soldi pubblici italiani. E quindi questo va regolamentato meglio».
– Presidente lo ha appena ripetuto nei giorni scorsi ricordando in Senato i 20 anni della lege che porta il suo nome: “Bisogna riservare un’attenzione particolare all’emittenza locale”. È ancora convinto del ruolo che svolge l’emittenza locale?
«La mia prima legge dava conto del ruolo strategico dell’emittenza locale. Oggi evidentemente è cambiato il mondo, e l’emittenza locale conta molto di meno rispetto al passato, ma esiste ancora e in alcune regioni è più presente che mai, e integra straordinariamente bene l’informazione nazionale. È per questo che noi daremo attenzione all’emittenza locale, di cui nessuno parla più. E vogliamo anche creare un fondo per quanto riguarda il sostegno ai giornali e alla carta stampata».
– Ancora più soldi pubblici ai giornali ?
«Le dico subito che il gruppo di Forza Italia nella legge di bilancio presenterà un emendamento sulla web tax. Noi vogliamo la web tax e il governo Meloni l’ha anticipata. La global minimum tax è la tassa sui giganti della rete, che l’Europa vuole ma in realtà non applica. L’Italia questa volta l’anticipa. Noi dobbiamo far pagare questa web tax a Bezos, a Musk, a X, a Google. La global minimum tax deve essere concentrata sui colossi che devono pagare. Noi siamo europeisti, crediamo all’Europa. Dopodiché l’Europa, prima di andare a rompere le scatole a un bagnino di Ravenna, dovrebbe valutare una cosa fondamentale: l’Irlanda, che fa parte dell’Unione Europea, ha fatto da paradiso fiscale per i giganti della rete che hanno lì le sedi. Avendo messo lì le sedi pagano qualche tassa, come dire, voi ci tollerate e noi vi diamo qualcosa».
– Presidente è certo di quello che dice?
«Facciamo allora un po’ di conti. L’Irlanda, sede dei paradisi fiscali, facendo da hub di questi colossi della rete ha visto variare il suo prodotto interno lordo dal 2008 al 2023, dati che traggo dall’autorità antitrust italiana, del 121%. E Malta del 111%. Dopodiché l’Olanda l’ha visto crescere del 18%. Noi dell’1%. L’Europa, che regola molte cose, deve dare secondo me un’occhiata anche a queste cose. Perché se l’Irlanda fa parte dell’Unione Europea e fa da hub dei giganti della rete, ne trae un vantaggio. Perché il reddito pro capite dell’Irlanda è cresciuto dell’85% in 15 anni, 2008-2023, mentre quello della Francia del 7% e il nostro del 2% circa. E allora credo che l’Europa abbia molte cose ancora da regolamentare.
Non crede? Ecco perché noi faremo una legge nuova che vada a regolamentare quello che verrà dopo».
– Presidente, la vedo e la sento molto determinato?
«Forse non le ho detto ancora tutto, però. Amazon che fa sui diritti del calcio? Compra i diritti della Champions, tutta la Champions, poi li rivende e si tiene quella partita che tu quella sera vuoi vedere. Così tu sei costretto a farti l’abbonamento non solo a Dazn, non solo a Sky, ma pure a Amazon. Allora mi chiedo e vi chiedo: questo potere di concentrazione e di dominio lo vogliamo affrontare o no? O vogliamo parlare di quisquilie? Quindi noi pensiamo ai prossimi vent’anni, non pensiamo ai prossimi venti giorni o alle prossime feste di fine d’anno. Come ragionammo allora, vent’anni fa, avendo ragione sugli ignoranti prevenuti di vent’anni fa, perché poi questo in realtà è successo. (giornalistitalia.it)
Pino Nano