MILANO – Tutto cominciò con una processione religiosa. Officiante il cardinale Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova. Francesco Cevasco era allora un collaboratore abusivo del «Secolo XIX». La cronaca non si rivelò rituale. Tutt’altro. Una sfilata del potere cittadino. Con qualche vanità e goffaggine di troppo. La curia protestò vivacemente. Ma il capocronista, Pietro Ferro, apprezzò lo stile e il coraggio del giovane collaboratore. Era quello il «Decimonono» di Piero Ottone — che poi avrebbe diretto il «Corriere» — e di Cesare Lanza.
Massimo Donelli, che condivise quei primi passi nella professione ed è stato uno dei suoi migliori amici, lo ricorda così: «Cesco era il mio fratello d’inchiostro, un mezzo secolo passato insieme senza mai litigare, nemmeno per ragioni sportive». Entrambi si ritrovarono poi — portati a Milano da Lanza — al «Corriere d’Informazione», l’edizione pomeridiana del «Corriere». Albe livide, cronaca nera, rosa. O, meglio, di tutti i colori. Anni di piombo ma anche irripetibili momenti di goliardia e di buon umore.
A un certo punto però, Cevasco, sampdoriano nel cuore, decise di lasciare Milano per tornare nella sua città natale. La nostalgia di casa, soprattutto se c’è il mare, diceva Donelli genoano nell’anima — che nel frattempo andò a Napoli al «Mattino» — è incontenibile. Noi padani di via Solferino, suoi compagni di banco, non riuscivamo a capirlo. Irresistibile per Cevasco era ancora di più la sfida professionale che lo attendeva: quella di rilanciare una testata storica come «Il Lavoro». Il glorioso foglio socialista era stato affidato, dal gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, già in cattive acque, a Giuliano Zincone, che in quanto a carattere e irrequietezza assomigliava al suo predecessore, direttore de «Il Lavoro», il ligure più illustre dell’epoca che in quel momento stava al Quirinale: Sandro Pertini. L’avventura editoriale durò poco e non ebbe il successo sperato. Zincone e Cevasco si scontrarono con i loro editori sul dilemma se pubblicare o no i volantini delle Brigate Rosse. Si trattava in quel caso di salvare la vita di un giudice. «Il Lavoro», comunque, fu una grande palestra di talenti. Vi collaborarono, tra gli altri, giovanissimi, Lucia Annunziata, Gad Lerner, Luigi Manconi.
Nel lungo curriculum professionale di Cevasco l’episodio è minore — perché gran parte della sua vita professionale si è svolta al «Corriere», con una parentesi alla «Stampa», di cui è stato un assoluto protagonista — ma significativo. Illustra bene una delle caratteristiche straordinarie della sua personalità umana e professionale. Paolo Pietroni, che lo ebbe come vicedirettore ad «Amica», ne ricorda l’intelligenza dell’umiltà. «Poco tempo fa fu lui a suggerirmi il titolo del mio prossimo libro — Prima che si spengano le lucciole — e aggiunse che non era importante che lo finissi ma che mi facesse compagnia».
Il gusto dell’avventura e la passione per il rotocalco (detto così fa molto Novecento, tipografie, piombo, fumo, atmosfere di cui ebbe sempre nostalgia) lo spinsero ad accettare la proposta di Edilio Rusconi di lanciare un nuovo prodotto di qualità, «Eva». Con sprezzo del pericolo mise in copertina una modella di colore. La sua lucciola, disse. Le regole di Rusconi erano le seguenti: mai un nero in copertina, il Papa meglio non metterlo perché non fa vendere, proibiti i titoli di traverso. L’esperienza di direttore di «Eva» finì bruscamente. Insieme a Lanfranco Vaccari, da condirettore, fu protagonista di una bella e coraggiosa stagione di giornalismo d’inchiesta all’«Europeo». Un’altra fucina di talenti. E di scoperte. «Telefona a questo giovane critico d’arte, si farà», mi disse una volta. «Ma non risponde mai». «Allora parla con la mamma». Lo sconosciuto era Vittorio Sgarbi.
Cevasco seguiva, stimolava, rincuorava con una pazienza certosina. Un carattere placido, solare, autoironico, che a tratti poteva sembrare persino fatalista. A Genova, e qui torniamo nella sua città natale, c’è una parola dialettale che ne definisce bene il carattere: miodin. Poche parole ma essenziali e taglienti alla bisogna. Ma una grande generosità di sorrisi nella virtù dell’ascolto.
Una grande disciplina del lavoro — non ci sono orari se si fa qualcosa con passione — senza mai una lamentela, un cruccio, una protesta. Questa rocciosa bontà d’animo, mescolata a rigore e determinazione, gli aveva consentito di essere nella parte più importante della sua vita professionale, un capo amichevolmente rispettato e non gerarchicamente temuto. Per tanti anni è stato il responsabile della redazione culturale del «Corriere», oltre a dirigere «Sette».
Amato da colleghi e collaboratori non sempre facili da dirigere, ansiosi di essere pubblicati, sempre timorosi che il cassetto fosse l’anticamera dell’oblio. Fernanda Pivano, carattere spigoloso, si addolciva alle sue parole. L’unico che perse la pazienza fu Gillo Dorfles che gli lanciò contro un posacenere, salvo poi scusarsi in tutti i modi. Dalla stanza di ospedale, nella quale ha trascorso le sue ultime ore, Francesco non poteva vedere il mare. Anche perché il mare calmo, rassicurante, placido, per noi che abbiamo avuto il privilegio di averlo amico e collega nell’ultimo mezzo secolo, è stato lui. Nessuno come lui.
Francesco Cevasco si è spento il 20 settembre al Policlinico di Milano, dove era ricoverato in seguito a una grave malattia. Era nato a Genova il 13 ottobre 1951. (corriere della sera)
Ferruccio de Bortoli