CHIANCIANO (Siena) – Nessuna sorpresa (purtroppo) al Congresso Fnsi di Chianciano. Tre giornate fitte di interventi, parole roboanti, retorici riferimenti solidali ai colleghi francesi di “Charlie Hebdo”, solenni impegni etico-morali per riportare in forza tutta la categoria. A parole, però, perché poi tutto è andato da copione con l’elezione del nuovo segretario generale, Raffaele Lorusso, candidato fortemente spinto dal presidente dell’Inpgi, Andrea Camporese, al quale si è accodato il segretario generale uscente della Fnsi, Franco Siddi. Un’elezione decisa già prima del Congresso, con un “accorduni” che ha portato alla presidenza della stessa Fnsi Della Volpe.
Non conoscevo Lorusso, l’ho sentito parlare per la prima volta nel suo intervento a Chianciano, durato il doppio rispetto ai 7 minuti imposti a tutti gli altri giornalisti che hanno parlato dal podio. I suoi ragionamenti mi sono sembrati condivisibili, seppure alquanto generici, privi di concretezza, letti con incertezza, magari forse solo per l’emozione o la stanchezza. Ma non è questo il punto. Partecipando al mio primo congresso da delegato, insieme ad altri diciassette colleghi calabresi, mi sarei aspettato molto di più, anziché respirare la medesima aria da inciucio che ormai invade ogni ganglo della società. L’assicurarsi la carica, la poltrona, questo o quell’altro obiettivo strategico-carrieristico diventa prioritario su tutto, anche in uno scenario tra i più foschi che l’editoria abbia mai conosciuto e di fronte a emergenze gravissime sul piano della libertà di stampa che si consumano specialmente al Sud, ma che tanti colleghi del resto d’Italia continuano a sottovalutare.
Nel mio intervento ho cercato di richiamare l’attenzione su un fatto inquietante: il nostro ex stampatore Umberto De Rose, che s’inventò la rottura delle rotative nottetempo pur di non far uscire l’Ora della Calabria con la notizia dell’inchiesta aperta dalla magistratura a carico del figlio del senatore Gentile, dopo aver cercato invano di acquisire la proprietà della nostra testata e di convincermi, tramite un paio di “messaggeri”, a una qualche intesa, adesso stampa ben due quotidiani calabresi: il “Garantista”, fondato in seguito alla sospensione delle nostre pubblicazioni da Piero Sansonetti, mio predecessore alla direzione dell’Ora della Calabria, e un provinciale cosentino nato lo scorso novembre su impulso del nostro ex pubblicitario, uno di quei “messaggeri” da cui mi arrivarono le profferte di pace “derosiane”. Insomma il censore autore di quella orrenda telefonata minatoria del “cinghiale ferito che ammazza tutti”, rinviato a giudizio per questa vicenda con l’accusa di violenza privata, dopo che la Procura di Cosenza ha stabilito con una perizia che la notte tra il 18 e il 19 febbraio di un anno fa non vi fu alcun guasto alle rotative del suo stabilimento, ha addirittura aumentato la sua influenza sull’editoria calabrese.
Ai colleghi riuniti a Chianciano ho riferito anche delle altre mostrusità che noi dell’Ora abbiamo subito nel corso di una liquidazione societaria piena di ombre, da me segnalate alla Commissione Antimafia, e ho annunciato una giornata della libertà di stampa calabra, il prossimo 19 febbraio. Il modo migliore per commemorare quel maledetto e inaccettabile blocco della rotativa subito un anno fa e tutte le ritorsioni subite dopo, a cominciare dall’oscuramento del sito quando denunciavamo le manovre per l’acquisizione della testata da parte di De Rose. Il modo migliore per trasformare quei soprusi in un omaggio simbolico a tutti i giornalisti che resistono ai potentati occulti, alle minacce e alle pressioni di ogni genere. Purtroppo, però, la sala congressi, mentre parlavo, era semi-vuota, gran parte dei 308 colleghi presenti era intenta a stringere accordi legati all’elezione di Lorusso.
Del resto, nei tre mesi in cui abbiamo occupato la redazione, la maggior parte di essi non ha mai mandato neppure un sms di solidarietà, un tweet, mai fatto un qualunque gesto o detto una parola di vicinanza. Zero. Molto curioso per chi nutriva l’aspirazione di raggiungere i vertici della Fnsi. Tutti tranne Franco Siddi, il quale invece è venuto più volte in Calabria, allertato dal segretario regionale, Carlo Parisi, per la nostra vicenda e altre di minacce e illegalità. Proprio Siddi, più volte, prendendo ad esempio la brutta storia dell’Ora, ha pubblicamente sottolineato la necessità che i finanziamenti pubblici sostengano le testate che, in realtà locali particolarmente segnate dalle mafie e dai potentati occulti, s’impegnano a garantire l’informazione libera e trasparente, definendole «non semplici testate, ma presidi di legalità», piuttosto che foraggiare, grazie anche a meccanismi da riformare, progetti antieconomici, privi di idee e di forti e concrete motivazioni sociali, già destinati al fallimento se non si tenessero in piedi per interessi poco chiari. Ebbene, senza che nessuno di noi delegati calabresi ne sapessimo nulla, neppure Carlo Parisi, capo della delegazione, nonché coraggioso candidato alla segreteria generale, candidatura da lui decisa all’ultimo, fondamentalmente per contrastare la logica dei giochi decisi dall’alto, Siddi nel suo interminabile discorso di congedo, dopo aver dichiarato che sosteneva Lorusso, ha lanciato l’idea (applaudita largamente dai presenti) che il nuovo presidente della Fnsi potesse essere Michele Albanese, oramai da mesi sotto scorta solo per aver esercitato coscienziosamente e senza bavagli il suo lavoro di cronista su fatti di n’drangheta nella Piana. La testimonianza del collega, commovente, autentica, anche nel segnalare il soffocamento che comporta, come uomo e come giornalista, l’essere costantemente sotto protezione, poco prima era finita in una spontanea, affettuosa standing-ovation.
Subito, nella nostra delegazione, ha preso corpo il sospetto di una trovata strumentale da parte dell’establishment della Federazione e alcuni di noi lo hanno detto apertamente a Siddi, il quale però assicurava che no, che la sua era una convinzione sincera. «Ho fatto il suo nome, prima del mio intervento», mi ha spiegato personalmente.
«Credo che il nuovo presidente debba incarnare i valori etici più alti della nostra professione e una figura come quella di Albanese sarebbe perfetta. Pensa che ho sentito fare il nome di Della Volpe…». Il tono di quest’ultima frase era eloquente, circa la convinzione del segretario generale uscente sull’inopportunità di quest’ultima candidatura. Eppure poi proprio Della Volpe è stato eletto presidente da 109 neo consiglieri nazionali: 79 voti contro i 25 ad Albanese, e altre cinque voti di protesta, uno dato a Raoul Bova, divo d’origine calabra, le altre schede bianche.
Con l’elezione del presidente si è toccato il fondo, ma non per il risultato. Terminato lo spoglio e proclamato Lorusso nuovo segretario generale (Parisi correndo da solo contro l’establishment ha avuto ben settanta consensi, tanti viste le manovre di cui si è detto, senza contare il successo della sua lista nell’elezione del Consiglio nazionale, dei revisori dei conti e dei probiviri), quando ormai erano quasi le 2 del mattino, si è deciso di eleggere immediatamente pure il presidente. Molti dei nei-consiglieri elettori erano già andati a dormire. Anche Albanese, accompagnato dalla scorta in un albergo poco distante, dove alloggiava. Ma bisognava fare in fretta, secondo Lorusso e i suoi sostenitori. Non si sa perché: forse si temeva che qualche partenza la mattina seguente avrebbe potuto mettere a rischio il quorum (70 voti) necessario per eleggere Della Volpe, voluto alla presidenza specialmente da Guido Besana e dalla nutrita delegazione lombarda e romana, determinanti nell’elezione di Lorusso? Parisi, dopo aver svegliato me e gli altri colleghi calabresi neo-consiglieri, ha fatto presente che, di fronte alla decisione di procedere nottetempo all’elezione del presidente, si sarebbe posto un problema per Albanese, il quale non avrebbe potuto più raggiungere l’Excelsior, dov’era allestito il seggio, senza la scorta che poteva muoversi solo previa comunicazione del cambiamento di orari e spostamenti (inizialmente l’elezione del presidente era stata fissata alle 9.30 del 31 gennaio) all’ufficio della questura competente.
A questo punto, inferociti, del tutto ignoranti delle abituali norme di sicurezza disposte in casi come quello di Albanese, colleghi romani e lombardi, hanno cominciato a urlare contro Parisi, accusandolo di strumentalizzazioni. Il tono offensivo, supponente ha spinto Parisi a replicare con veemenza che, se la pensavano così, l’intera delegazione calabrese non avrebbe partecipato alla votazione. Il piemontese Stefano Tallia, consigliere anziano, è allora intervenuto sostenendo che non si sarebbe votato senza Albanese. Quest’eventualità sarebbe stata inaccettabile, un iniquo isolamento voluto da chi, invece, dovrebbe sostenere e incoraggiare l’impegno per la libera informazione, condotto con coraggio in scenari autenticamente temibili.
Tanti colleghi, allora, anche nel granitico schieramento romano-lombardo dell’establishment, hanno appoggiato questa posizione. Il che ha fatto saltare i nervi a qualcuno. Sono volate ingiurie, insulti irripetibili. Poi si è passati alle botte, a una vera e propria rissa. Una scena davvero poco edificante per l’intera categoria.
Mi viene in mente Battiato che cantava, in “Minima Immoralia”, «quante stupide galline che si azzuffano per niente». Il problema è che questo niente, anche nella Fnsi, può contare più del tutto che dovrebbe essere il ritorno ai valori fondanti della professione giornalistica.
Carlo Parisi stesso, mentre nella sala del congresso impazzava la poco lusinghiera baruffa, ha concordato con Tallia, ma soprattutto telefonicamente con Albanese, una soluzione per uscire dall’empasse: una delegazione del seggio elettorale sarebbe andata all’albergo di Albanese con un’urna apposita a raccogliere il suo voto. E così è stato fatto. Pochi istanti prima dell’apertura del seggio all’Excelsior, lo stesso segretario del Sindacato Giornalisti della Calabria, ha richiamato pubblicamente le parole di Siddi riguardo a una possibile presidenza di Albanese di «alto spessore morale», dichiarando che la nostra delegazione avrebbe seguito la sua indicazione, ma aggiungendo con amarezza: «Vedremo se quelle parole erano soltanto una trovata pubblicitaria».
Subito dopo, allora, è salito sul podio Besana a perorare la causa di Della Volpe. Le sue parole mi sono parse inquietanti: ha detto, riferendosi all’intervento di Parisi, che era «fastidioso usare in questo modo un nome» e che la categoria ha bisogno «di un presidente che la rappresenti in tutte le sue componenti e non soltanto in una parte».
Ma è piuttosto fastidioso che Besana abbia dimenticato che il nome di Albanese sia stato proposto “coram populo” da Siddi, il segretario uscente, attivo sostenitore nel suo stesso schieramento, così com’è fastidioso che si ritengano “marginali” o di rilevanza “locale” storie come quella di Albanese. Al premio giornalistico internazionale di Ischia, dove l’Ora della Calabria ha ricevuto una menzione d’onore per la resistenza nel sostenere la lotta nella libera informazione, ho parlato con tanti colleghi campani e siciliani che conoscono o vivono in prima persona il peso di ingerenze e minacce che rischiano di spazzare del tutto la vera stampa nel Mezzogiorno. Ma come il valore della libera informazione non ha confini, così non deve averli la lotta a chi la viola. Tanto più che i recenti casi di cronaca nazionale mostrano come si sia estesa in tutto il Paese l’ingerenza della n’drangheta e della criminalità organizzata in genere nelle cosiddette “zone grigie”. Altrimenti, non ha senso partecipare alle fiaccolate di solidarietà per i colleghi di Charlie Hebdo, o riempirsi la bocca a proposito delle vicende di maggiore risalto sui media. Altrimenti non ha senso sostenere, come hanno fatto in tanti a Chianciano, la sacrosanta necessità che l’Associazione Regionale di Stampa della Campania, radiata dopo lo scioglimento, al più presto sia riammessa nella Federazione Nazionale della Stampa.
Se ho votato Parisi all’elezione per il nuovo segretario generale è stato solo perché l’ho visto presente e partecipe, 24 ore su 24, anche sul piano umano, ben oltre il dovere istituzionale, non solo nella nostra vicenda, ma in tutte le più angoscianti storie di soprusi e minacce contro i giornalisti in Calabria. Se magari non avessi accolto il suo sprone a restare in Calabria per condurre insieme una lotta decisiva per tutti i giornalisti (calabresi e non), fossi tornato a Milano, dove ho sempre lavorato, dopo gli esordi a Venezia e Torino, e mi fossi comunque trovato al Congresso di Chianciano, lo avrei votato lo stesso, sulla base del suo impegno, della sua costanza. La stessa che gli ho visto incarnare come vicesegretario nazionale verso colleghi di altre regioni in gravi difficoltà. E credo si possano spiegare così i 70 consensi trasparenti che ha ricevuto.
Mi auguro che Lorusso, il nuovo segretario, non la pensi come Besana sulla “marginalità” di certi soprusi. Ma ho trovato singolare il suo ringraziamento a Camporese, presidente dell’Inpgi.
Subito dopo la rissa e lo squallore notturno di Chianciano mi era venuto forte l’impulso di dimettermi, dopo meno di un’ora dall’elezione, da consigliere nazionale. Poi ho capito che così non si cambiano le cose. È dura ma bisogna provarci. E crederci anche quando il tanfo di quegli “accorduni”, intese dei potentati oscuri ai confini della legalità, o dell’omertà che combatti quotidianamente sul campo, rischia di propalarsi dove ti aspetteresti di esserne difeso.
Luciano Regolo
Anch’io faccio mio quanto scritto dal Direttore Regolo. Vorrei porgere all’amico Carlo Parisi gli auguri per la bella, isolata battaglia che, credo, moralmente lo pone sul gradino più alto della FNSI.
Il racconto di Luciano Regolo non è una novità, purtroppo. E non riguarda solo i giornalisti e gli organi di governo della categoria. In questo nostro Paese – ma io non mi rassegno, caro Luciano – si è consolidata una stratificazione culturale, una s..costumanza (chiamiamola così)– secondo cui “tutto si può vendere o comprare”. Voglio però restare alla sostanza del tema.
Le conclusioni del congresso della nostra Fnsi (ancora per quanto tempo di tutti, vista la balcanizzazione delle posizioni?) riflettono in pieno tale condizione generale del Paese. Ma questo non ci esime, anzi, ci deve spingere ad alzare di più le palpebre e cominciare a guardare con gli occhi giusti, se vogliamo garantire la nostra autonomia di pensiero, con l’obiettivo di informare e “formare” i cittadini.
Le “manovre” di Chianciano hanno, però, procurato il “mal di fegato” a molti, anzichè sanarlo, come un tempo propagandava i suoi “miracoli” la stazione termale. Anche a me, caro Luciano, che ho seguito gli esiti del congresso nazionale da lontano, è venuto il “mal di fegato”. Perchè il grumo di potere – un’autentica portaerei nucleare se confrontata all’agile vascello Parisi – che ha pilotato il dibattito e determinato la composizione degli organismi, non è solo frutto di una sorta di “dirigismo elitario” (state sereni che ce la vediano noi che ne sappiamo più di voi!), ma è cementata da questioni a più corto raggio, molto concrete. Mi riferisco alla gestione di Inpgi e Casagit (quanto hanno pesato nella scelta dei delegati?) lasciata troppo tempo in mano a nostri “impiegati”, spesso senza chiedere conto del loro operato, e che da oggi deve impegnarci tutti per non ritrovarci, col tempo, senza un futuro che ci consenta, dopo anni di lavoro, di potere godere dei sacrifici del nostro impegno. Non era così fino a qualche decennio addietro, quando le nostre Inpgi e Casagit erano modello per altre casse integrative e previdenziali. C’è, dunque, un problema patente, caro Luciano – che ha pesato a Chianciano – di trasparenza, di legittimità di atti, di strategie di salvaguardia per mettere in sicurezza i nostri – “nostri” – beni per garantire non solo i pensionati. Questo ha soprattuto pesato, più della bontà delle mozioni, più del bisogno di garantire alle nuove generazioni che si avvicinano alla nostra professione le minime garanzie contrattuali, un vero cappio al collo – questo sì – capace di condizionare davvero la libertà di pensiero. Non rassegniamoci, non lasciamo tutto in mano al finto “duopolio” Roma-Milano, e cominciamo davvero a diventare “scomodi”.