Il caso Giulia Cecchetin ci impone di riflettere sulla potenza dell’informazione responsabile

Femminicidi: quando la narrazione uccide due volte

Giulia Cecchetin

ROMA – Il ritrovamento del corpo della giovane Giulia Cecchettin ha scosso profondamente tutti, riportando all’attenzione dell’opinione pubblica questioni fondamentali relative ai femminicidi. Questa tragica vicenda si inserisce purtroppo in un contesto più ampio di violenza di genere, richiedendo un’analisi attenta e un approccio sensibile.

Giulia Cecchetin

Negli anni sono stati attribuiti nomi e definiti vari reati, tra cui l’unico termine accettabile è omicidio. Tuttavia, è innegabile che si assista costantemente a descrizioni sempre più distorte e narrazioni che, anziché evidenziare la gravità del fatto, sembrano quasi giustificarlo. Queste narrazioni contribuiscono a normalizzare l’evento, specialmente quando vengono diffuse dalle voci degli assassini e delle famiglie coinvolte. Tale modo di raccontare i fatti può influenzare la percezione dell’opinione pubblica, attenuando la responsabilità e la gravità dell’atto commesso.
Frasi come “Era una brava persona”, “Salutava sempre”, “Era un gran lavoratore e stravedeva per la moglie”, così come “Erano innamorati e felici”, “Proprio una bella famiglia” sono diventate un vero e proprio mantra, ripetute dai parenti, dagli amici, dai vicini, dai conoscenti, dopo un fatto di cronaca, un omicidio, un femminicidio. Si tratta di un rituale che probabilmente serve a esorcizzare l’accaduto. Frasi purificatrici, come se le tragedie venissero scatenate dal nulla, da spiriti, o ancor peggio, attribuendole a colpe e azioni non dipendenti dalla propria volontà: “è stato un raptus”, un momento improvviso, una follia momentanea.
Ma quel fantomatico “raptus” non esiste, come affermato da tempo dall’Associazione nazionale degli psichiatri italiani. Questi eventi sono, in qualche modo, tragedie preannunciate, e lo si comprende quando si inizia a cercare il movente, che spesso porta alla premeditazione. Tensioni quotidiane, crescenti incomprensioni, conflitti interiori e scontri accumulati si trasformano in meccanismi di difesa psicologici, generando una realtà distorta. Quando arriva il fattore scatenante, diventa il catalizzatore che focalizza la frustrazione, l’infelicità e la rabbia, indirizzandole verso un bersaglio.
Si smarrisce, allora, il senso dei ruoli, delle vittime e dei carnefici, in una ricerca di moventi indegni, di dettagli morbosi, profanando la verità con costruzioni inverosimili o con le cosiddette “esche mediatiche”, il tutto finalizzato solo a suscitare la curiosità del pubblico o del lettore. Questi equivoci arrivano fino a confondere ruoli e protagonisti, a colpevolizzare la vittima e a difendere il carnefice. “L’uomo ha commesso l’omicidio perché non poteva sopportare l’idea della separazione”, “Separazione difficile”, “L’ultimo gesto del suo amore”, “Non sopportava di perderli”, “La separazione l’ha cambiato”: questi sono esempi comuni nei casi di femminicidio.
Le parole, si sa, non sono neutre. La semantica della violenza ha sempre una base linguistica, soprattutto quando si tratta di giornalisti tenuti a rispettare la “verità sostanziale dei fatti” e a osservare le norme di legge a tutela dei diritti fondamentali della persona. Considerando che i media agiscono come un quarto potere, influenzando e plasmando l’opinione pubblica, come ribadito dal Parlamento europeo, il loro ruolo diventa cruciale.
Negli anni sono state diverse le associazioni o movimenti spontanei contro la violenza sulle donne che hanno richiamato la stampa a quei principi del codice deontologico e delle leggi e norme vigenti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione. È imperativo che i media non si limitino a essere spettatori delle vicende umane ma si assumano consapevolmente un ruolo nel cambiamento culturale. Il loro potere va oltre la semplice diffusione dell’informazione: hanno la capacità di influenzare atteggiamenti e percezioni. Sono portatori di responsabilità e di opportunità.
Una narrazione rispettosa, fondata su fatti incontestabili e priva di sensazionalismo, può abbattere le barriere che perpetuano il silenzio e l’ignoranza. È la creazione di un’opinione pubblica consapevole e attiva, capace di comprendere la complessità dei fenomeni e della violenza di genere. La verità raccontata in modo rispettoso, lontano da esagerazioni e distorsioni, scuote le coscienze e spinge le persone a vedere oltre la superficie, ad abbracciare la complessità della realtà.
Lo scopo non è soltanto il superamento degli stereotipi, dei pregiudizi e la valorizzazione delle differenze di genere ma anche che, con la funzione sociale a cui si è fatto riferimento, si possa contribuire al quel cambio di rotta culturale e strutturale che ancora relega la donna a funzioni e ruoli di sottomissione sociale e professionale, alimentata anche da espressioni linguistiche inappropriate quanto lesive e non veritiere che nulla hanno a che fare con la notizia di cronaca. Anche questi sono passaggi necessari, obbligati, perché si raggiunga la parità di genere realmente sostanziale e non solo formale.
Questa sfida non è solo dei media e degli esperti. È un richiamo all’umanità che risiede in ciascuno di noi, una chiamata all’azione collettiva che scuote le fondamenta di una società spesso affetta da indifferenza. È un atto di responsabilità verso le vittime, le loro storie, i loro dolori e le loro lotte. È un invito a ogni individuo, a ogni cittadino, a prendere parte attiva a questo processo di trasformazione culturale.
In questo senso, la vera potenza di un’informazione responsabile si manifesta come uno strumento di riscatto per le voci silenziate, di sostegno per le vittime e di chi rimane e di speranza per un futuro in cui la violenza di genere sia relegata al passato. (giornalistitalia.it)

Fabrizia Rosetta Arcuri

CHI È FABRIZIA ROSETTA ARCURI

Fabrizia Rosetta Arcuri

Giornalista pubblicista e communication manager con esperienza nel campo televisivo e delle agenzie di comunicazione, è autrice e conduttrice di format web e Tv, specializzata in comunicazione pubblica e politica e ghostwriter.
Esperta di comunicazione, territori, borghi, turismo delle radici, violenza di genere, condizione della donna, ha un Master in Criminologia e Scienze Forensi. Ha scritto a quattro mani con il criminologo Sergio Caruso il libro “Sangue del mio Sangue” (Falco Editore, 2020), un racconto autobiografico di un fatto di cronaca che vide protagonista la sua famiglia. (giornalistitalia.it)

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