ROMA – L’Inpgi perde un’altra causa di lavoro anche contro la società editrice dalla Gazzetta del Mezzogiorno poi dichiarata fallita. L’ente previdenziale non incasserà nulla per i contributi pretesi per l’attività lavorativa giornalistica svolta a tempo pieno da 3 collaboratori come avevano accertato i suoi ispettori. Lo ha stabilito la Cassazione.
Non supera il vaglio della magistratura un’ispezione dell’Inpgi per ottenere dalla società Edisud (già editrice della Gazzetta del Mezzogiorno di Bari, dichiarata fallita nei mesi scorsi) il pagamento dei contributi previdenziali dovuti per tre giornalisti pubblicisti che secondo gli ispettori dell’ente svolgevano attività lavorativa giornalistica a tempo pieno e non part-time in via esclusiva e quotidiana.
Per la sezione lavoro della Suprema Corte l’Inpgi non potrà incassare nulla, anzi dovrà pagare anche 6 mila euro di spese legali per il giudizio conclusosi nel “Palazzaccio” di piazza Cavour con l’ordinanza n. 23610 del 27 ottobre scorso. È questo il verdetto finale dei supremi giudici, che conferma la precedente decisione emessa sei anni fa dalla Corte d’appello di Roma. (giornalistitalia.it)
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
Cassazione Civile Sezione Lavoro Num. 23610 Anno 2020
Presidente: MANNA ANTONIO
Relatore: D’ANTONIO ENRICA
Data pubblicazione: 27/10/2020
ORDINANZA
sul ricorso 3865-2015 proposto da:
Inpgi – Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti Italiani “Giovanni Amendola” C.F. 01057021006, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Gabriele Camozzi 9, presso lo studio dell’avvocato Gavina Maria Sulas, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
Edisud – Società Editrice del Sud spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Fabio Massimo 107, presso lo studio dell’avvocato Roberto Luca Lobuono Tajani, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Enzo Vailati;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1400/2014 della Corte d’appello di Roma, depositata il 7 marzo 2014 r.g.n. 5348/2011.
CONSIDERATO IN FATTO:
1. La Corte d’appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale, ha accolto l’opposizione proposta dalla soc. Edisud avverso il decreto ingiuntivo emesso su richiesta dell’Inpgi per il pagamento dei contributi dovuti per tre giornalisti pubblicisti, che svolgevano attività ritenuta dall’Istituto a tempo pieno e non part-time, in via esclusiva e quotidiana.
La Corte ha rilevato che la richiesta di pagamento dei contributi era basata sul verbale ispettivo fondato sulle dichiarazione dei lavoratori; che tuttavia tali dichiarazione erano contrastanti con i contratti intercorsi tra le parti che prevedevano un part-time di 24 ore a settimana e che, inoltre, la prova testimoniale aveva smentito il tempo pieno, il carattere esclusivo della prestazione in quanto il Grittani lavorava come collaboratore dell’Asl, La Bella faceva supplenze scolastiche e D’Amico aveva interessi in un’azienda pubblicitaria. Secondo la Corte non risultavano provati i requisiti di cui all’art. 36 Ccnl che equiparava ai fini retributivi, la prestazione di un pubblicista con orario settimanale di 36 ore a quella del giornalista professionista.
2. Avverso la sentenza ricorre l’Inpgi con 6 motivi. Resiste l’Edisud. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art 378 cpc.
RITENUTO IN DIRITTO:
3. Con il primo motivo la ricorrente denuncia nullità ed inesistenza della sentenza, mancata pronuncia su tutte le domande, violazione delle norme sulla acquisizione delle prove, violazione degli artt. 112, 115, 132, 277 cpc (art 360 n. 3 e 4 cpc); dell’art 1 e 36 Cnlg (art. 360 n. 3 cpc). Deduce che la Corte non aveva preso in esame le singole posizioni dei lavoratori, ma aveva preferito una motivazione complessiva pervenendo ad una motivazione del tutto inesistente ed omettendo di esaminare attentamente le dichiarazioni dei testi che confermavano l’orario di lavoro a tempo pieno; che non aveva valutato l’irrilevanza dell’esclusività, non richiesta per la configurazione dell’attività giornalistica del redattore a tempo pieno cui era equiparata a fini retributivi anche quella del pubblicista a tempo pieno, né la possibilità che il rapporto si potesse svolgere in modo diverso dal contratto scritto.
4. Con il secondo motivo denuncia omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 cpc) costituito dalla prova esistente in atti che tutti i giornalisti raggiungevano le 36 ore settimanali, essendosi la Corte basata solo su alcune dichiarazioni dei testi e svalutandone altre. Osserva che qualora la Corte avesse avuto dei dubbi avrebbe dovuto provvedere alla prosecuzione della prova.
5. Con il terzo motivo denuncia violazione degli artt. 112 e 421 cpc (art 360 n. 3 e 4 cpc) Eccepisce che la Corte non si era pronunciata sulla richiesta di svolgimento delle ulteriori prove e che qualora la Corte avesse avuto dei dubbi circa l’orario di lavoro avrebbe dovuto provvedere alla prosecuzione della prova.
6. Con il quarto motivo denuncia violazione dell’art. 257 cpc (art. 360 n. 3 e 4 cpc). Deduce che il giudice istruttore ben può limitare la lista testi e che tuttavia, sia in Tribunale sia in Corte d’appello, l’Inpgi aveva sollecitato l’escussione degli altri testi, ma la Corte l’aveva implicitamente rigettata ritenendo sufficiente la prova con una motivazione inesistente ed anzi gli elementi probatori assunti non corrispondevano a quanto accertato nell’istruttoria.
7. Con il quinto motivo denuncia violazione dell’art. 255 cpc e del principio del diritto di difesa e quello della ragionevole durata del procedimento. Lamenta che la Corte non aveva motivato la decisione di non escutere gli altri testi.
8. Con il sesto motivo eccepisce l’illegittimità costituzionale dell’art. 360 n. 5 cpc nella sua nuova formulazione ove inteso nel senso che non consenta la denuncia della mancata prosecuzione della prova per testi decisa dal giudice senza alcuna motivazione. Violazione dell’art 112, 115, 116 e 255 cpc non avendo la Corte disposto la prosecuzione della prova, pur avendo ritenuto non sufficiente la prova dello svolgimento di 36 ore lavorative settimanali.
9. Il ricorso va rigettato.
10. Risulta infondata la censura relativa alla mancata distinzione tra le posizioni dei singoli giornalisti non avendo il ricorrente neppure esposto le rilevanti e decisive differenze tra le singole posizioni di cui la Corte non aveva tenuto conto e, comunque, la Corte tra le varie dichiarazioni contrastanti tra loro, ha effettuato una scelta, ad essa competente, ritenendo attendibili alcune invece che altre.
Ancora, sulla doglianza della riduzione della lista testi, riconducibile al vizio di cui all’art. 360 n. 5 cpc, va rilevato che costituisce un potere tipicamente discrezionale del giudice di merito, esercitabile anche nel corso dell’espletamento della prova, qualora, per i risultati raggiunti, ritenga superflua l’ulteriore assunzione della prova e tale ultima valutazione non deve essere necessariamente espressa, potendo desumersi per implicito dal complesso della motivazione della sentenza. (cfr Cass 11810/2016, n. 9551/2009 ).
11. Con riferimento alle censure con cui l’Inpgi si duole nella sostanza che i giudici di appello abbiano escluso la sussistenza delle caratteristiche di cui all’art. 36 del Ccnl giornalisti le censure si risolvono nella richiesta di una rivalutazione del materiale probatorio. L’art 36 citato stabilisce che “Ai pubblicisti che esercitano attività giornalistica in via esclusiva e prestano opera quotidiana con orario di massima di 36 ore settimanali si applica il trattamento economico e normativo previsto per i giornalisti professionisti di cui al primo comma dell’art.1 del presente contratto”.
La Corte ha escluso che sia stata raggiunta la prova dello svolgimento di attività giornalistica per 36 ore settimanali e della esclusività della prestazione.
Inpgi, con i motivi formulati tendenti a contestare i risultati raggiunti dalla Corte, trascura di considerare che così si invoca una rivalutazione della ricostruzione fattuale operata dai giudici ai quali compete, anche attraverso il riferimento a materiali istruttori, ricostruzione che è invece affidata al sovrano apprezzamento del giudice di merito, in tal modo travalicando i limiti imposti ad ogni accertamento di fatto dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici) di cui chi ricorre non tiene adeguato conto.
In particolare risultano poi inappropriati i richiami agli artt. 115 e 116 c.p.c.; atteso che, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., come riformulato (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017).
Così si è ribadito anche in controversie analoghe (cfr. Cass. n. 4369 del 2017; Cass. n. 18018 del 2017; Cass. n. 26612 del 2019; Cass. n. 26613 del 2019) che taluni rilievi, pur formalmente ricondotti ad una pretesa violazione di legge, si sostanziano in censure sulla congruità e logicità della motivazione, nonostante il controllo sulla stessa non rientri più nel catalogo dei casi di impugnazione per cassazione a seguito della modifica del n. 5 dell’art. 360 c.p.c.; disposizione che deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione.
Com’è noto, a seguito della indicata modifica legislativa che ha reso deducibile solo il vizio di omesso esame di un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo della motivazione è stato confinato sub specie nullitatis, in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c. il quale, a sua volta, ricorre solo nel caso di una sostanziale carenza del requisito di cui all’art. 132, n. 4, c.p.c., configurabile solo nel caso di “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. SS.UU. n. 8053/14 cit.). Di talché, anche per questo verso, le censure mosse dal ricorrente si palesano inaccoglibili, atteso che la Corte territoriale ha spiegato, in maniera esaustiva e niente affatto perplessa, le ragioni della decisione che escludono l’osservanza dell’orario di 36 ore nonché l’esclusività.
12. Infine circa l’eccezione di incostituzionalità dell’art 360 n. 5 cpc è sufficiente rilevare che l’interpretazione della norma proposta dal ricorrente si appalesa in contrasto con la funzione propria della Corte di Cassazione che è quella nomofilattica, mentre la Corte può esercitare poteri riconducibili al merito solo nei casi espressamente previsti, quale la decisione ex art. 384 cpc.
13. Rigettato il ricorso, l’Inpgi va condannato a pagare le spese processuali. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, dpr n 115/2002.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese processuali che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre 15% per spese generali ed accessori di legge, nonché euro 200,00 per esborsi.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del dpr n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis, dello stesso art 13.