ROMA – «Nel febbraio del 1992, prima della strage di Capaci», il boss Matteo Messina Denaro, con alcuni “picciotti” di Cosa nostra si era trasferito «per nove giorni» a Roma per fare pedinare Maurizio Costanzo «per farlo saltare in aria».
«Ma cercavamo anche Pippo Baudo ed Enzo Biagi». E persino il giudice Giovanni Falcone.
A raccontarlo, collegato in videoconferenza da un luogo segreto dove vive, è il collaboratore di giustizia Francesco Geraci nel processo Capaci-bis che si celebra davanti alla Corte d’assise d’Appello di Caltanissetta. Costanzo era finito nel mirino della mafia in seguito a una serie di iniziative particolarmente pesanti contro la criminalità organizzata.
In particolare nel settembre 1991 aveva organizzato una trasmissione a reti unificate con Michele Santoro per commemorare Libero Grassi, l’imprenditore ucciso dopo aver detto in tv che non avrebbe mai pagato il pizzo. «C’era una lista di persona da uccidere», racconta Francesco Geraci.
«Cercavamo anche Falcone che andava al Ministero – dice ancora –. Avevamo compiti differenti io e Vincenzo Sinacori».
La Procura generale ha chiesto di sentire Geraci sulla cosiddetta “Missione romana” decisa dal boss Riina per progettare l’uccisione del giudice Giovanni Falcone nei primi mesi del ’92. Racconta anche di un incontro avvenuto a Palermo prima di andare nella Capitale.
«Andammo a Palermo, con Matteo Messina Denaro, ad una riunione, alla quale non mi fecero prendere parte, credo perché non contavo niente. C’erano Matteo Messina Denaro, Renzo Tinnirello, i fratelli Graviano, Enzo Sinacori, Salvatore Biondo, e lì si è deciso che si doveva andare a Roma. Nella Capitale eravamo io Matteo Messina Denaro, Giuseppe Graviano, Renzo Tinnirello, Enzo Sinacori, e un’altra persona. Mi portarono a Roma perché avevo la carta di credito. E lì presi una macchina a noleggio».
Poi Geraci racconta di avere ricevuto da Matteo Messina Denaro “cinque milioni di vecchie lire a testa” con gli altri mafiosi durante la permanenza di Roma.
«Matteo Messina Denaro era con Renzo Tinnirello – racconta ancora Geraci – e cercavano dei giornalisti». Anche loro da uccidere, secondo quanto racconta il collaboratore di giustizia.
A Roma, Cosa Nostra aveva nel mirino Giovanni Falcone, ma anche personaggi “in vista” del mondo del giornalismo e dello spettacolo come Maurizio Costanzo, Andrea Barbato, Michele Santoro e Pippo Baudo.
Per il boss Totò Riina, come hanno raccontato diversi collaboratori di giustizia, erano tutti da condannare perché “rei” di aver «avviato una sistematica campagna mediatica volta a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle atrocità commesse da Cosa nostra e dalle altre organizzazioni criminali di stampo mafioso».
«Andammo anche davanti al Teatro Parioli dove lavorava Costanzo – dice Geraci – e si parlava di mettere del tritolo in un cassonetto dell’immondizia».
L’attentato a Maurizio Costanzo fu fatto poi dopo un anno, il 14 maggio 1993. Maurizio Costanzo e Maria De Filippi si salvarono solo perché i killer furono traditi da un cambio di auto: il solito autista, che usava una Alfa Romeo 164, quella sera stava male e chiese il cambio a un collega che usava la Mercedes. L’attimo di esitazione dei mafiosi fu vitale. (adnkronos)