ROMA – Nel congratularmi vivamente per la lodevolissima e nobilissima iniziativa dei presidenti del Senato e della Camera dei deputati, Pietro Grasso e Laura Boldrini, che non ha precedenti e che sta riscuotendo un vastissimo consenso anche on line tra i cittadini, di revocare senza bisogno di alcuna legge l’erogazione dei vitalizi agli ex parlamentari che siano stati condannati in via definitiva dalla magistratura per mafia, corruzione o altri reati gravi, mi permetto di segnalare alla loro cortese attenzione un altrettanto delicatissimo problema giuridico, connesso sempre ai vitalizi di ex deputati ed ex senatori, che, per effetto della distorta interpretazione di una norma di legge, sarebbe sinora costato all’Erario in circa 45 anni almeno 5 miliardi di euro (10 mila miliardi di vecchie lire). Un onere pesantissimo e per di più privo di qualsiasi copertura finanziaria, come invece impone l’art. 81 della Costituzione.
Si tratta dell’art. 31 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, norma quasi sconosciuta dello Statuto dei Lavoratori di cui nessuno parla, a differenza di quanto avvenuto per l’ormai famigerato ed ultra noto art. 18 in tema di licenziamento per giusta causa da un’azienda.
Infatti, grazie ad una stravagante invenzione giuridica assolutamente di parte e ad un tacito accordo trasversale e bipartisan, migliaia di ex deputati e senatori in 45 anni hanno potuto graziosamente usufruire delle cosiddette doppie pensioni a spese di “Pantalone” (lo Stato italiano) , cioé fino al 1999 “pago zero, ma prendo 2“ (in altri termini pago 0 e incasso il 200%), mentre dal 2000 in poi “pago un terzo, ma prendo 2“ (in altri termini pago il 30% e incasso il 200%)!
Questa norma assolutamente corretta e garantista nelle intenzioni del professor Gino Giugni, padre dello Statuto dei lavoratori, ha, però, avuto nella realtà disastrosi effetti nel bilancio dello Stato e di istituti previdenziali come l’Inps o l’Inpgi 1 (unico ente privatizzato sostitutivo dell’Inps).
Occorre quindi rimediare al più presto, rimettendo le cose finalmente al loro posto con saggezza, equilibrio ed equità e rispettando, proprio in un tempo come questo di gravi ristrettezze economiche, gli obiettivi primari del governo Renzi, cioé quelli di ridurre, tagliare ed evitare sperperi e sprechi.
Peccato, però, che la classe politica con grande abilità e furbizia abbia sinora evitato di autoflagellarsi, come se i sacrifici li dovessero pagare solo tutti gli altri cittadini, riservandosi una zona franca, pressoché intoccabile, nel labirinto pensionistico.
Eppure l’art. 31 dello Statuto dei lavoratori era stato correttamente creato proprio per garantire a qualunque cittadino eletto deputato, senatore, consigliere o presidente di Regione, sindaco di grandi città (poi questo sacrosanto diritto é stato esteso anche ai deputati del Parlamento europeo) di mettersi in aspettativa e di poter conservare il precedente posto di lavoro fino al termine del mandato, mantenendo anche una adeguata copertura previdenziale.
In pratica, se un lavoratore dipendente pubblico o privato viene eletto deputato, il suo posto di lavoro, finché resterà in carica come onorevole, potrà essere preso temporaneamente da un altro lavoratore. Ma una volta cessato l’incarico a Montecitorio, l’ex deputato potrà tranquillamente tornare al suo vecchio posto di lavoro in azienda, mentre il suo sostituto dovrà andarsene. Per tutto questo periodo all’ex onorevole dovrà anche essere assicurata la precedente copertura previdenziale senza alcun “buco contributivo”.
Fin qui non ci si potrebbe, quindi, scandalizzare e al compianto professor Giugni non si potrebbe rimproverare nulla, perchè leggendo e rileggendo o imparando anche a memoria l’art. 31 tutti sarebbero concordi nel ritenerla una disposizione assolutamente garantista e corretta.
Peraltro, come ha giustamente sentenziato la Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 149 del 3 maggio 2002, “le garanzie costituzionali, per chi é chiamato a funzioni pubbliche elettive, sono quelle “di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”, oltre che di poter accedervi in condizioni di eguaglianza (art. 51 della Costituzione), essendo rimesso alla discrezionalità legislativa (influenzabile anche da una valutazione degli interessi attinenti alla situazione economica generale) il trattamento economico e giuridico del lavoratore chiamato alle funzioni anzidette, con il vincolo, in ogni caso, derivante dalle predette garanzie costituzionali”.
Senonché c’é un trucco nascosto e nella pratica tale norma di garanzia é stata abilmente manipolata.
Ma di chi la colpa? È l’effetto di una subdola interpretazione del significato del termine “vitalizio” che – in virtù della cosiddetta “autodichia” ed autonomia assoluta di bilancio di Montecitorio e di palazzo Madama che impedisce sul nascere qualsiasi successivo controllo da parte della Corte dei Conti – la Camera e il Senato hanno elargito alla fine del loro mandato anche agli ex deputati ed ex senatori che avevano mantenuto la copertura previdenziale grazie all’art. 31.
Ebbene anch’essi hanno avuto diritto a tenersi stretto il vitalizio grazie alla stravagante interpretazione che il vitalizio non potesse essere considerato una pensione. Pertanto, in circa 45 anni, migliaia di ex parlamentari hanno di fatto messo in tasca una sorta di doppia pensione pagata da “Pantalone” senza che la legge lo prevedesse espressamente: per la precisione per deputati, senatori, europarlamentari, governatori di Regioni e sindaci di grandi città, che prima di essere eletti avevano già una posizione previdenziale aperta a loro nome, fino al 1999 scattava una doppia pensione interamente gratis, in quanto l’intero costo dei contributi era a carico di ciascun ente previdenziale presso cui era già iscritto il parlamentare, mentre per 3/4 gratis dal 2000 in poi, in quanto l’art. 38 della legge finanziaria n. 488 del 1999 ha in parte ridotto il “regalo” dello Stato, prevedendo che se il deputato voleva incrementare i suoi contributi doveva, comunque, versare di tasca propria la quota di sua competenza (circa il 9%) come lavoratore subordinato. Restava, invece, a totale carico del rispettivo ente previdenziale (Inps, ex Inpdap, Inpgi, ecc.) la pesante quota (variabile dal 22% al 31%) per i contributi figurativi sulla futura pensione, quota che fino all’elezione veniva pagata dal datore di lavoro.
Parallelamente é aumentata nel corso del tempo anche la platea dei beneficiari dell’art. 31 che comprende anche i dipendenti di enti pubblici (in genere) eletti nei Consigli regionali, in base all’intervento di interpretazione autentica, operato con l’art. 22, comma 39, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure per la razionalizzazione della finanza pubblica).
Essendo di fatto preclusa, quindi, la possibilità, riservata ad ogni cittadino, di presentare una duplice e parallela Mozione sia al Senato, sia alla Camera, in base all’art. 50 della Costituzione in quanto l’art. 31 dello Statuto dei Lavoratori é una norma che non va modificata – perché testualmente ben scritta, priva di errori e costituzionalmente corretta –, ma che va solo interpretata nel modo giusto, mi permetto di sottoporre, in qualità di “super partes”, una semplice quanto elementare proposta che risponderebbe ai requisiti di buon senso e di equità e che si attaglierebbe perfettamente sia alla formulazione letterale dell’art. 31 della legge 300 del 1970, sia alla spending review, rispettando in pieno il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della Costituzione che oggi é, invece, palesemente violato.
In via interpretativa e in sede di autodichia si dovrebbe formalizzare da parte delle Presidenze del Senato e della Camera una sorta di gentlemen’s agreement, in base al quale senza bisogno di alcuna legge “i lavoratori eletti deputati o senatori (lo stesso discorso dovrebbe valere naturalmente per i consiglieri e presidenti di Regione, per i sindaci di grandi città e per gli eurodeputati, ndr) hanno diritto a mantenere il loro precedente posto di lavoro per tutta la durata del mandato e a vedersi accreditare, rispettivamente, dalla Camera o dal Senato i contributi previdenziali originariamente versati dall’azienda o dall’ente presso cui prestavano lavoro dipendente. Resta, tuttavia, ad esclusivo carico di ogni deputato e senatore la quota di contributi già di sua spettanza come lavoratore dipendente, come prevede l’art. 38 della legge n. 488 del 1999. I deputati e i senatori già iscritti ad enti previdenziali prima della loro elezione non hanno diritto di percepire alcun vitalizio da Camera o Senato. Hanno, invece, diritto a percepire il vitalizio da Camera o Senato solo quei deputati e senatori non iscritti ad enti previdenziali prima della loro elezione”.
In sintesi, un qualsiasi lavoratore (magistrato, avvocato dello Stato, manager, dirigente bancario, pilota, medico ospedaliero, professore universitario, ambasciatore, insegnante di scuola o di liceo, generale, ammiraglio, militare, carabiniere, poliziotto, sindacalista, giornalista, ecc.) eletto deputato o senatore avrebbe diritto a mantenere il precedente posto di lavoro per tutta la durata del mandato parlamentare e a vedersi poi accreditare i contributi nello stesso identico modo in cui avveniva prima della sua elezione, cioé pagando la propria quota di competenza.
Pertanto la Camera o il Senato dovrebbero semplicemente sostituirsi all’azienda per i contributi relativi alla sola parte datoriale, mentre il deputato o il senatore dovrebbe continuare versare la sua quota di pertinenza così come già avveniva in precedenza. Ma senza più godere successivamente di alcun vitalizio a spese di “Pantalone”. Altrimenti continuerebbe di fatto a scattare ingiustamente la seconda pensione gratis per l’ex senatore o l’ex deputato per lo stesso periodo di tempo di permanenza a Palazzo Madama o a Palazzo Montecitorio. Naturalmente lo stesso discorso dovrebbe valere per i consiglieri e presidenti di Regione, per i sindaci di grandi città e per gli eurodeputati.
Come é ovvio questa normativa non potrebbe avere effetto retroattivo (anche se sarebbe forse giusto farlo), ma costituirebbe comunque un atto di buona volontà delle Camere nei confronti dei cittadini e nessuno potrebbe più lamentarsi degli ingiustificati privilegi finora goduti da ex deputati ed ex senatori.
Peccato che tra le migliaia di proposte e disegni di legge presentate in questa legislatura a Montecitorio e a palazzo Madama non ve ne sia nessuno che preveda l’abolizione della doppia pensione per i parlamentari.
Viceversa quattro anni fa l’ex Presidente del Consiglio, Enrico Letta, fu il primo firmatario di un’apprezzabile e condivisibile proposta di legge per abolire i vitalizi dei parlamentari. Ma il documento é rimasto lettera morta, restando chiuso nei cassetti di Montecitorio senza neppure essere stato mai esaminato dalla Commissione Affari Costituzionali della Camera e finendo così in un cestino.
Ci si attendeva, poi, che da premier l’onorevole Letta, coerentemente con quanto aveva ipotizzato il 21 dicembre 2010, avesse ripresentato questa sua proposta come iniziativa dell’Esecutivo e quindi con ben altra valenza, ma soprattutto con ottime chances di vederla trasformata in legge. Purtroppo, queste legittime aspettative dei cittadini sono andate deluse.
L’ex numero 1 di palazzo Chigi deve essere evidentemente rimasto suggestionato dalla lavata di testa fattagli in una lettera dell’aprile 2011 dal presidente dell’Associazione degli ex parlamentari, Gerardo Bianco, già segretario del Ppi.
Coraggio, quindi, Presidente Grasso e Presidente Boldrini, provvedete ora a far Vostro, nell’ambito dell’autodichia delle Camere, il mio suggerimento o il vecchio progetto Letta n. 3981 con gli opportuni aggiustamenti, perché andava davvero nel segno giusto prevedendo, tra l’altro, l’abrogazione dell’istituto dell’assegno vitalizio e il divieto di accumulo del vitalizio con i contributi graziosamente elargiti da “Pantalone” (lo Stato italiano).
Pierluigi Roesler Franz
Consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti
Sindaco Revisore dell’Inpgi