REGGIO CALABRIA – Tra i fondatori della Figec Cisal, Federazione Italiana Giornalismo Editoria Comunicazione, c’è anche mons. Salvatore Nunnari, arcivescovo emerito di Cosenza e ancora prima presidente della Conferenza Episcopale Calabra, vescovo della diocesi di Sant’Angelo dei Lombardi-Conza-Nusco-Bisaccia e amministratore apostolico di Lungro degli Italo-Albanesi. Un protagonista, insomma, della Chiesa Italiana, ma soprattutto un’icona della Chiesa calabrese, per aver dedicato tutta la sua vita e la sua missione pastorale agli interessi della Calabria e della sua città natale, Reggio Calabria, che in queste ore si prepara a vivere una delle processioni più solenni della storia della pietà popolare.
Parliamo della processione in onore della Madonna della Consolazione, patrona della città, che don Nunnari – lui ha sempre tenuto a farsi chiamare così – per anni ha animato e guidato come portatore tra i portatori della Sacra Effige e che sabato 9 settembre, dopo una notte di veglia e preghiera alla Basilica dell’Eremo, lo vedrà presiedere l’eucaristia che anticiperà la discesa del Quadro verso la Basilica Cattedrale.
Protagonista nella Chiesa, ma anche nel giornalismo. Nato a Reggio Calabria l’11 giugno 1939 – nella sua Reggio, dopo gli studi nel seminario arcivescovile, fu ordinato sacerdote il 12 luglio 1964 e destinato, come vicario, alla parrocchia di Santa Maria del Soccorso che, da parroco, ha guidato dal 1983 al 1999 –, giornalista pubblicista iscritto all’Ordine e al Sindacato Giornalisti della Calabria dal 18 luglio 1977, mons. Salvatore Nunnari è stato per ben 12 anni consigliere nazionale della Federazione della Stampa e per 13 anni consigliere del Sindacato Giornalisti della Calabria ricoprendo anche l’incarico di vicesegretario e tesoriere.
Un impegno e una vicinanza, quella di monsignor Nunnari, ai colleghi giornalisti che lo portò a ricostituire, il 1° dicembre 2005, insieme a Carlo Parisi e don Pippo Curatola, la sezione regionale dell’Unione Cattolica Stampa Italiana, successivamente dedicata a Natuzza Evolo, la mistica di Paravati per la quale Papa Francesco ha aperto il processo di beatificazione.
E sempre a Paravati, il 7 giugno 2008, Carlo Parisi, assieme a mons. Salvatore Nunnari, mons. Luigi Renzo e don Pippo Curatola, consegnò a Natuzza Evolo il Premio “L’Affabulatore d’oro” quale “straordinaria comunicative di verità” e la tessera n. 1 dell’Ucsi Calabria.
– Don Salvatore perché, ad un certo punto della sua vita, lei chiede di essere tra i fondatori della Figec?
«Perché ci sono varie stagioni della vita, e questa parte finale della mia vorrei dedicarla a me stesso e ai principi che hanno sempre mosso la mia vita di sacerdote. Dopo essere stato per anni all’interno della Fnsi, con incarichi anche di prestigio, ora sento che la mia strada è un’altra. Sento che il giornalismo italiano ha la necessità di cambiare rotta, soprattutto abitudini. È impensabile, con tutto quello che accade sotto i nostri occhi, che oggi ci sia ancora un unico sindacato che tuteli i giornali italiani. O meglio, che abbia la presunzione di tutelare il mondo della comunicazione».
– Perché dice “la presunzione”?
«Perché negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad una rivoluzione copernicana del mondo dell’informazione e delle news, e oggi non possiamo non registrare che anche questo vecchio mondo è cambiato radicalmente. È nata un’infinità di nuovi giornali, di nuovi organi di informazione, di prodotti on line che nulla hanno a che fare con la vecchia impostazione del giornalismo di un tempo, e questi ragazzi, questi giovani free lance vanno tutelati come una volta accadeva per i giornalisti coperti da contratto. Cosa che nessuno ancora sa fare. Ecco perché ho scelto di aderire alla Figec. Perché la Figec, per la prima volta parla di diritti da salvaguardare non solo dei giornalisti, ma anche dei comunicatori, dei fotografi, dei cineoperatori, degli esperti digitali, degli scrittori, dei poeti, insomma di tutti coloro che, in maniera diversa, fanno informazione, comunicazione, arte e cultura. Come si fa a non tener conto che la platea dei media è radicalmente cambiata ed i nuovi mezzi di comunicazione esercitano un ruolo determinante nella formazione delle coscienze dei nostri tempi?».
– Come giudica il giornalismo moderno?
«Molto più libero di quanto non lo fosse in passato. Ma forse perché oggi, rispetto al passato, ci sono i social che sono strumenti non solo di immediatezza e di comunicazione veloce, ma anche di maggiore libertà rispetto al clima che un tempo si respirava in certe redazioni. Questo non vuol dire che ieri si stava peggio e oggi si sta meglio, ma vuol dire che quello che prima non arrivava alla gente comune nei tempi dovuti, oggi invece arriva prima che lo dica la radio o la televisione, e questo è grande sintomo di libertà».
– Vede anche dei limiti?
«Spesso vedo troppa superficialità. Troppa approssimazione. Notizie date e non verificate, inchieste annunciate e mai chiuse, processi mediatici che andrebbero fatti solo in tribunale, insomma una comunicazione globale che impone certamente dei controlli più seri e più serrati. A volte mi chiedo, ma che fine hanno fatto gli Ordini regionali dei giornalisti? Possibile che tutto possa accadere senza che nessuno paghi?
Parlo di influencer e operatori della comunicazione che vivono il proprio ruolo in maniera a volte esasperata e indiscutibilmente fuori dalle regole. Ecco dove sta il ruolo insostituibile dell’Ordine dei Giornalisti, che oggi invece sembra volersi limitare solo alla fase iniziale della iscrizione all’albo di più gente possibile. Il resto sembra tabù. Immobile ed eterno, e questo non credo sia corretto per nessuno. Anche per il sindacato. Le pare normale che in una grande azienda come la Rai non possa esercitare le sue funzioni un sindacato diverso da quello storicamente accettato e digerito? Dovunque si parla sempre di più di democrazia e pluralismo, ma mi pare solo a parole. Nei fatti tutto è rimasto come vent’anni fa, quando io ero consigliere nazionale della Federazione della Stampa. Le sembra normale? In questo Paese tutto cambia, tranne che il mondo del giornalismo, e questo non mi pare corretto per nessuno».
– A Reggio Calabria in questi giorni l’aspetta la Processione della Madonna della Consolazione, di cui lei è stato per lungo tempo, portatore della Sacra Effige, e so che vive questi giorni con grande apprensione e grande ansia. Perché?
«Perché questa della Madonna della Consolazione è la Festa che riunisce Reggio Calabria in un unico coro, dove tutti finalmente tornano ad essere uguali, a sentirsi fratelli nello spirito, compagni di avventura e di strada, amici per la pelle. Per un giorno tutti insieme per affidare alla Signora dell’Eremo le proprie pene e le proprie speranze. Un trionfo della pietà popolare senza pari, che si tocca con mano giorno per giorno, ora per ora, in queste ore che precedono la Festa. È un incredibile bagno di commozione popolare».
– Per anni lei è stato la guida dei portatori della Sacra Effige, che effetto le fa tutto questo?
«Si è vero, sono stato sotto la Vara per tanti anni, le prime volte avrò avuto diciassette anni, non ero neanche maggiorenne.
Ovviamente ero accanto ai portatori. Ma ero soprattutto accanto anche a don Italo Calabrò, mio indimenticabile maestro di vita e di fede. È stato lui, don Italo, a restaurare il senso autentico della processione, fondando l’associazione dei portatori, e facendola riconoscere dalla gerarchia ecclesiastica. Se penso agli anni passati, gli anni senza la processione, le prime immagini che mi vengono in mente sono quelle della mia giovinezza, della mia infanzia, del mio primo amore, quando aspettavi che un anno volasse via proprio per rivivere la magia della processione e della festa. Immagini che io lego ancora oggi a una bellissima canzone è una nenia popolare, che sento riecheggiare dentro di me continuamente, ed era il motto dialettale di Ciccio Errigo che diceva “Cu terremoti, cu guerri, cu paci, sta festa si fici, sta festa si faci!”».
– Ha un ricordo particolare di questa Processione così solenne e dai numeri record?
«L’esperienza più bella? Ho guidato tante volte il quadro per le vie di Reggio e ho ricordi bellissimi e indelebili. Lungo la strada ho visto cose meravigliose. Ricordo le grida di un bambino sulla sedia a rotelle con la mamma accanto vicino al Palazzo della Provincia. Con lo sguardo fisso sul quadro urlava di guarire tutti i bambini del mondo. Un altro ricordo è legato ad un mio fraterno amico che vive da non credente il momento della processione forse con maggiore intensità di alcuni fedeli cattolici. Per lui è una tradizione e la sola visione del quadro della Madonna lo lega fortemente alla famiglia, al padre e alla madre».
Don Salvatore Nunnari, giovane sacerdote di frontiera, portatore tra i portatori della Sacra Effige, pifferaio magico di un popolo in cerca di fede, confessore privilegiato ed esclusivo di una città di cui nessuno come lui conosce uomini, cose e segreti anche inconfessabili.
«Questa della Madonna della Consolazione a Reggio è una celebrazione unica in Calabria. Il popolo reggino si stringe attorno alla Madre e ritrova i valori perduti. È un momento importantissimo soprattutto per le nuove generazioni che devono fare tesoro dei festeggiamenti religiosi mariani.
Per Reggio è uno straordinario risveglio, una sorta di nuova primavera, un appuntamento solenne che la città, ogni anno da secoli, si è dato con la Madonna della Consolazione. Finalmente quest’anno, dopo due anni di fermo imposti dalla pandemia, torna a Reggio Calabria la tradizionale processione della Madonna della Consolazione, “Avvocata del popolo reggino, e questo per noi è un vero miracolo».
Al cronista che gli chiede di sapere di più sulla Festa il vecchio arcivescovo risponde con il suo solito sorriso disarmante.
«Le racconto un aneddoto. Per tanti anni ho fatto parte del Comitato comunale, presieduto dai diversi sindaci del tempo, che organizzava le festività civili. Bene, pensando a tutta questa mastodontica macchina organizzativa, che ogni anno si mette in moto per la Festa della Madonna, ho visto sempre, e vedo ancora oggi davanti ai miei occhi, una città bellissima. Una Reggio meravigliosa. Venga a vederle, se le è possibile, quelle centomila anime che sfilano dietro la Vara. Rappresentano l’identità di un popolo e la vera forza di questo territorio e di questa terra. È un popolo fatto di credenti ma anche di non credenti. Ma è un popolo finalmente unito. Sa cosa mi succede ogni volta che guardo questo spettacolo? Piango. Piango di commozione, piango di felicità, piango di malinconia, ed è bellissimo».
Forte il richiamo del vecchio arcivescovo all’impegno della Chiesa in difesa del Sud, cosa che lui fa ancora oggi nel corso delle sue tradizionali omelie.
«Vede, negli anni passati a Napoli, che possiamo considerare la capitale del Mezzogiorno, i vescovi meridionali, come nel 1948, hanno fatto sentire ancora una volta la propria voce e il forte richiamo alla politica. Ne è venuto un messaggio di speranza che si fa impegno per ogni uomo di buona volontà. Non basta la denuncia e neppure la proposta, occorre l’impegno quotidiano, come c’è, dei cattolici meridionali e in altre parti d’Italia nella vita della chiesa, soprattutto nei territori più disagiati. Qui si costruiscono ogni giorno gli spazi dove ciascuno di noi, associazioni, imprenditori, lavoratori, politici, è chiamato a fare la propria parte senza vittimismo e senza aspettare Godot».
– Tra i suoi maestri chi in particolare vuole oggi ricordare per Giornalisti Italia?
«Non potrei farle nome diverso: don Italo Calabrò. Per giunta domenica prossima, 10 settembre, si apre ufficialmente il suo processo di beatificazione e la Chiesa reggina potrebbe avere finalmente anche il suo nuovo santo».
– Un processo giusto?
«Assolutamente sì. Mai e poi mai un processo di beatificazione sarebbe stato più reale e aderente alla realtà di questo di don Italo. Don Italo ebbe la sanità di dichiarare guerra aperta alla ‘ndrangheta quando da queste parti nessuno osava farlo. Farlo significava mettere a rischio la propria vita e don Italo lo fece tante volte diverse. Non solo, ma lui ebbe anche il tempo e la fortuna di spiegare a noi, sacerdoti come lui, che la ’ndrangheta si combatte a muso duro a viso aperto, e grazie ai suoi insegnamenti la Conferenza Episcopale Calabra trovò il coraggio di vergare contro la mafia dei documenti di grandissimo spessore morale e teologico. Ma il merito di tutto questo fu solo suo, di don Italo Calabrò».
– Padre, allora una scelta convinta, quella della Figec Cisal…
«Mi lasci dire un’ultima cosa che avevo dimenticato di dirle. Se don Italo fosse ancora vivo potrebbe far parte anche lui, senza dubbio, della Figec. E sa perché? Perché nel corso della sua straordinaria missione pastorale ha scritto centinaia di pagine sulla sua vita e sulla sua esperienza pastorale da meritarne la tessera ad onorem. Tutto il racconto della sua vita a San Giovanni di Sambatello, paese allora ad altissima densità mafiosa, è oggi patrimonio di tutti noi per via dei saggi da lui lasciati in eredità spirituale, e già questo, pur non essendo lui giornalista, oggi gli permetterebbe di entrare a far parte della Figec». (giornalistitalia.it)
Pino Nano