ROMA – Non ci sono prove per sostenere che i capi storici del clan dei Casalesi, Francesco Bidognetti e Antonio Iovine (ora pentito), abbiano materialmente concorso alla predisposizione dell’atto di rimessione in Cassazione che l’avvocato Michele Santonastaso illustrò il 13 marzo del 2008, durante un’udienza del processo d’appello denominato “Spartacus”, offendendo e calunniando i pm della Dda Federico Cafiero De Raho e Raffaele Cantone (il primo adesso alla guida della Procura di Reggio Calabria, il secondo dell’Autorità nazionale anticorruzione).
È quanto scrivono nelle motivazioni della sentenza i giudici della quinta sezione penale del tribunale di Roma che l’11 luglio scorso hanno condannato a 5 anni e mezzo di reclusione Santonastaso, assolvendo, per non aver commesso il fatto, Bidognetti e Iovine. Il penalista, riconosciuto colpevole dei reati di diffamazione e calunnia con l’aggravante del metodo mafioso, lesse quel giorno (pur in assenza dei suoi assistiti) un lunghissimo documento in cui, tra l’altro, si mettevano in dubbio la serietà dell’indagine, il lavoro dei magistrati e il ruolo svolto dalla stampa (con riferimenti alla giornalista Rosaria Capacchione e allo scrittore Roberto Saviano).
La Procura di Roma, in sede di requisitoria, aveva chiesto la condanna anche di Bidognetti e Iovine, ritenendo che avessero concordato col proprio difensore questa iniziativa. Il tribunale non ha condiviso l’impostazione e ne spiega così le ragioni.
Anzitutto, si legge nelle motivazioni, “non è affatto chiaro in quale occasione Bidognetti, sottoposto a regime di carcere duro, e il suo difensore avrebbero potuto concordare la stesura del testo: i loro colloqui erano oggetto di ascolto da parte della polizia giudiziaria e la corrispondenza indirizzata al detenuto sottoposta a controllo”. Non solo, ma dalla conversazioni intercettate emerge come Santonastaso si fosse limitato a informare Bidognetti che avrebbe avuto intenzione di presentare al processo d’appello un atto senza chiarirne la natura e il contenuto.
“Ancora più labili – spiega il collegio giudicante – sono le prove del concorso di Iovine che all’epoca dei fatti era latitante. È peraltro inverosimile che Iovine, il quale nelle more è divenuto un collaboratore di giustizia e si è accusato di omicidi che non gli erano stati addebitati prima, abbia poi continuato a negare falsamente la propria responsabilità con riferimento ai reati per cui qui si procede che sono certamente meno gravi di quelli confessati”.
È vero che i due boss, in un secondo momento, aderirono all’iniziativa del difensore e che firmarono la procura speciale necessaria per presentare l’istanza di rimessione in Cassazione ma è anche vero che la loro fu una condotta successiva a quanto fatto da Santonastaso, la cui azione si era già consumata e aveva prodotto i suoi effetti: questo perché “diffamazione e calunnia hanno natura di reati istantanei e si perfezionano nel momento in cui le espressioni diffamatorie e calunniose sono percepite da terzi”.
Insomma, Bidognetti e Iovine non hanno offerto alcun contributo alla consumazione dei reati posti in essere dal loro avvocato. Quanto all’aggravante del metodo mafioso riconosciuta al penalista, il tribunale spiega che “l’autonomia con la quale Santonastaso avrebbe predisposto il contenuto dell’atto di remissione è rivelatrice non solo del suo stabile inserimento nell’associazione criminale ma anche del ruolo apicale che gli permetteva di assumere, senza concordarle con i capi, iniziative dall’effetto dirompente in grado di impegnare all’esterno l’intero clan”. (Agi)