ROMA – Dopo ben 17 anni la Cassazione ha definitivamente scagionato tre giornalisti del Giornale di Sicilia, Giovanni Pepi, Riccardo Lo Verso e Luca La Mantia, dall’accusa di aver leso l’onore e la reputazione dell’allora assessore al Bilancio della Provincia di Palermo, Maurizio Pirillo. È l’ennesima riprova della cronica lentezza della giustizia civile in Italia nei processi per diffamazione.
Questi i fatti. Il Giornale di Sicilia, con tre distinti articoli pubblicati il 4, 5 e 6 settembre 2003 e firmati dai giornalisti Giovanni Pepi, Riccardo Lo Verso e Luca La Mantia, divulgava la notizia dell’avvenuta iscrizione nel registro degli indagati dell’allora assessore al bilancio della Provincia di Palermo, Maurizio Pirillo, per il delitto di falsa perizia di cui all’art. 373 del codice penale, nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria volta ad accertare la regolarità e la legittimità della procedura seguita per autorizzare il trasferimento in via Malaspina dell’Istituto scolastico Einaudi.
Il 30 agosto 2012 il Tribunale di Palermo accolse in parte la richiesta di risarcimento dei danni non patrimoniali arrecati all’onore e alla reputazione dell’allora assesore Pirillo, rilevando l’insussistenza dell’esimente del diritto di cronaca perché i tre articoli avevano violato il principio di verità, essendo emerso che il reato che gli era stato contestato riguardava la diversa ipotesi di concorso in tentata concussione. Pertanto, il quotidiano siciliano e i tre giornalisti vennero condannati a pagare comunque un indennizzo – seppur inferiore a quello richiesto – di 8.000 euro a titolo di risarcimento del danno e di ulteriori 1.000 euro a titolo di riparazione pecuniaria in base all’art. 12 della legge sulla stampa del 1948.
Il verdetto fu, però, ribaltato dalla Corte d’Appello di Palermo che assolse i tre giornalisti e il Giornale di Sicilia, rilevando che il tribunale avesse mal ricostruito e interpretato il contenuto degli articoli, in cui si affermava soltanto che il Pirillo fosse indagato, insieme ad altri, nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria relativa alla sicurezza delle scuole, nella quale era emersa la commissione di illeciti nella procedura di trasferimento dell’istituto Einaudi. Illeciti commessi anche mediante l’uso di una falsa perizia. In pratica per i giudici di secondo grado il fatto di cronaca narrato era da considerare vero nei suoi aspetti generali, nonostante fosse stata riferita una circostanza inesatta, in quanto tale discrasia era improduttiva di danno. Di conseguenza venne respinta la richiesta di risarcimento avanzata da Pirillo.
La terza sezione civile della Cassazione con ordinanza n. 12903 del 26 giugno scorso, ha ora messo fine alla vicenda confermando la sentenza di appello e condannando l’ex assessore Pirillo a rimborsare più di 7 mila euro di spese legali.
C’é, però, da chiedersi: é normale che un giornalista resti sub iudice così a lungo prima di ottenere ragione? E come giustifica il Consiglio Superiore della Magistratura questi tempi biblici che appaiono in aperta violazione sia dell’art. 111 della Costituzione sul giusto processo, sia dell’art. 117 della Costituzione in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che prevede che “ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile”?
I tempi abnormi di conclusione davanti alla giustizia italiana delle cause civili di risarcimento danni da diffamazione sono provati da altri casi clamorosi. Eccone un campionario: l’ex direttore de La Nazione di Firenze, Gabriele Cané, é stato assolto dopo 21 anni dalla Corte d’Appello civile di Firenze l’8 settembre 2015; l’ex direttore de La Stampa, Marcello Sorgi, é stato scagionato a distanza di ben 19 anni dalla pubblicazione di un articolo ritenuto diffamatorio con sentenza della Cassazione civile n. 23647 del 10 ottobre 2017. Il record spetta, comunque, al giornalista Roberto Di Meo della redazione di Terni de La Nazione, che ha definitivamente vinto la causa addirittura dopo 24 anni dalla pubblicazione di un suo articolo ritenuto diffamatorio con ordinanza della Cassazione civile n. 25177 dell’11 ottobre 2018. (giornalistitalia.it)
Pierluigi Franz
Ordinanza n. 12903 del 26 giugno 2020 della III Sezione Civile della Cassazione
(Presidente Giacomo Travaglino, relatore: Stefano Giaime Guizzi)
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Ordinanza sul ricorso 33172-2018 proposto da:
PIRILLO MAURIZIO, elettivamente domiciliato in Roma, Rep. Via A Stoppani 1, presso lo studio dell’avvocato Maria Beatrice Miceli, rappresentato e difeso dall’avvocato Lelio Gurrera; – ricorrente –
contro Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica spa, in persona del suo Presidente e legale rappresentante, elettivamente domiciliato in Roma, Via Monte Zebio 37, presso lo studio dell’avvocato Marcello Puritano, rappresentato e difeso dagli avvocati Alessandro Algozini, Giorgio Algozini; – controricorrente –
nonché contro Pepi Giovanni, Lo Verso Riccardo, La Mantia Luca; – intimati -avverso la sentenza n. 1508/2018 della Corte d’Appello di Palermo, depositata il 16 luglio 2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/01/2020 dal Consigliere Dott. Stefano Giaime Guizzi;
FATTI DI CAUSA
1. Maurizio Pirillo ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 1508/18, del 16 luglio 2018, della Corte di Appello di Palermo, che – accogliendo il gravame esperito dalla società Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica S.p.a. (d’ora in poi, Giornale di Sicilia), nonché da Giovanni Pepi, Riccardo Lo Verso e Luca La Mantia, avverso la sentenza n. 3759/12, del 30 agosto 2012, del Tribunale di Palermo – ha rigettato la domanda proposta dall’odierno ricorrente, finalizzata alla condanna dei già appellanti al risarcimento dei danni non patrimoniali arrecati al suo onore e alla sua reputazione a causa della pubblicazione di una notizia, ritenuta falsa, sul quotidiano Il Giornale di Sicilia.
2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente che Il Giornale di Sicilia divulgava, con tre distinti articoli (pubblicati il 4, 5 e 6 settembre 2003), la notizia dell’avvenuta iscrizione nel registro degli indagati di esso Pirillo, all’epoca dei fatti Assessore al bilancio della Provincia di Palermo, per il delitto di falsa perizia di cui all’art. 373 cod. pen., nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria volta ad accertare la regolarità e la legittimità della procedura seguita per autorizzare il trasferimento, in via Malaspina, dell’Istituto scolastico Einaudi.
Il ricorrente, lamentando che il contenuto di detti articoli integrasse gli estremi della diffamazione a mezzo stampa ex art. 595, comma 3, cod. pen., adiva il Tribunale di Palermo chiedendo la condanna della società editrice, nonché del Pepi, del Lo Verso, e del La Mantia, al risarcimento del danno non patrimoniale subito.
Il giudice di prime cure – sul rilievo che gli articoli censurati avessero violato il principio di verità, essendo emerso che il reato ascritto al Pirillo riguardava la diversa ipotesi di concorso in tentata concussione – escludeva la sussistenza dell’esimente del diritto di cronaca e, di conseguenza, condannava i convenuti al pagamento della minor somma (rispetto a quella richiesta) di euro 8.000,00, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale e di ulteriori euro 1.000,00 ai sensi dell’art. 12 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.
I convenuti soccombenti proponevano gravame avverso tale decisione, ritenendo che il giudice di prime cure avesse mal ricostruito e interpretato il contenuto degli articoli, in cui si affermava soltanto che il Pirillo fosse indagato, insieme ad altri, nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria relativa alla sicurezza delle scuole, nella quale era emersa la commissione di illeciti nella procedura di trasferimento dell’istituto Einaudi, illeciti commessi anche mediante l’uso di una falsa perizia.
Il giudice d’appello accedeva a tale interpretazione, ritenendo che il fatto di cronaca narrato, vero nei suoi aspetti generali, avesse riferito una circostanza inesatta e che tale discrasia fosse improduttiva di danno. Di conseguenza, accoglieva il gravame, rigettando la domanda proposta dal Pirillo.
3. Avverso la sentenza della Corte panormita ricorre per cassazione il Pirillo sulla base – come detto – di due motivi.
3.1. Con il primo motivo – proposto a norma dell’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. – sì deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 51 e 595 cod. pen., nonché degli artt. 2043 cod. civ. e 21 Cost. Il ricorrente censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto integrato l’estremo della verità della notizia divulgata, benché, in realtà, fosse vero un fatto – l’iscrizione nel registro degli indagati per l’ipotesi di concorso nel reato di tentata corruzione – diverso da quello descritto (iscrizione per il reato di falsa perizia), violando i principi che regolano l’esercizio del diritto di cronaca e, in particolare, il principio di verità della notizia.
Al vaglio di questa Corte, dunque, si sottopone la questione se possa integrare gli estremi della diffamazione la pubblicazione di un articolo in cui si riporta una notizia inesistente (l’iscrizione del soggetto per il reato di falsa perizia), allorquando sia vero un altro fatto, anche se più grave.
3.2. Con il secondo motivo – proposto a norma dell’art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ. – si lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Il ricorrente si duole del fatto che la Corte territoriale, “limitandosi ad argomentare (erroneamente) in ordine alla (inesistente) verità della notizia, ha omesso di motivare relativamente al requisito della continenza” (p. 10 del ricorso). A differenza del giudice di primo grado, che aveva osservato come i titoli degli articoli pubblicati presentassero in toni scandalistici il coinvolgimento del Pirillo nelle indagini relative al mancato rispetto della sicurezza nelle scuole, la Corte palermitana nulla avrebbe detto riguardo al requisito della continenza della notizia.
Inoltre, sempre nell’ambito del secondo motivo, il ricorrente censura la sentenza della Corte distrettuale laddove ha affermato che l’attribuzione del reato di falsa perizia avrebbe avuto, sul pubblico dei lettori, un impatto minore rispetto all’indicazione del reato di concorso in tentata concussione.
4. Ha resistito la società Giornale di Sicilia, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.
Quanto al primo motivo di ricorso la controricorrente ne evidenzia l’inammissibilità in quanto esso non avrebbe specificato le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie. Inoltre, le censure mosse dal ricorrente attengono all’apprezzamento del fatto da parte del giudice di merito, come tale insindacabile in sede legittimità.
Infine, il motivo sarebbe inammissibile in quanto si risolverebbe in una censura dell’iter logico della motivazione; censura non proponibile sotto la veste della violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ.
Quanto al secondo motivo di ricorso, se ne deduce l’inammissibilità in quanto volto a censurare apprezzamenti giuridici del fatto esaminato dalla Corte distrettuale e non già il fatto in sé. Inoltre, tale censura si riferirebbe, a ben vedere, alla motivazione della sentenza che non avrebbe spiegato la ritenuta minor gravità della notizia diffusa rispetto a quella contestata dalla Procura. Anche in questo senso, il motivo viene ritenuto inammissibile, perché proposto sotto la veste di omesso esame circa un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti.
Infine, quanto al requisito della continenza della notizia, si sottolinea che il ricorrente, fin dall’atto introduttivo del giudizio di primo grado, ha sempre e solo contestato la verità della notizia diffusa, senza mai introdurre il tema della continenza della pubblicazione.
5. Entrambe le parti hanno presentato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.
6.1.1. Al riguardo, deve muoversi dal rilievo che costituisce consolidato principio quello secondo cui, “in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata motivazione” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. 14 marzo 2018, n. 6133, Rv. 648418-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, ord. 30 maggio 2017, n. 13520, non massimata sul punto; Cass. Sez. 3, sent. 27 luglio 2015, n. 15759, non massimata, Cass. Sez. 3, sent. 10 gennaio 2012, n. 80, Rv. 621133-01).
Di conseguenza, il “controllo affidato al giudice di legittimità è, dunque, limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonché al sindacato della congruità e logicità della motivazione, secondo la previsione dell’art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ., applicabile «ratione temporis»”, mentre resta “del tutto estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione, non potendo la Corte di cassazione sostituire il proprio giudizio a quello del giudice di merito in ordine a tale accertamento” (così, nuovamente in motivazione, Cass. Sez. 3, ord. n. 6133 del 2018, cit.).
Se, dunque, il sindacato sulla congruità della motivazione va condotto alla stregua del testo, “ratione temporis” applicabile, dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., deve, allora, constatarsi come quello “novellato” – operante rispetto alla presente fattispecie – dall’art. 54, comma 1, lett. b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, limiti il sindacato di questa Corte sulla parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonché, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).
Lo scrutinio di questa Corte è, pertanto, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonché, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), in quanto affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), o perché “perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. Sez. Lav. 17 maggio 2018, n. 12096, Rv. 648978-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di «sufficienza» della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).
6.1.2. Ciò detto, il motivo di ricorso in esame investe l’apprezzamento che la Corte palermitana ha fatto del requisito della verità della notizia divulgata.
La censura, quindi, non ha ad oggetto la verifica se la Corte territoriale abbia preso in esame tale requisito, bensì direttamente l’apprezzamento che dello stesso ha compiuto il giudice di merito, riguardando, così, la ricostruzione e l’interpretazione del contenuto degli articoli pubblicati.
Tale apprezzamento, come detto, può essere sindacato da questa Corte solo nei limiti (peraltro, ormai ristretti) dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ.
La circostanza, tuttavia, che il motivo evochi, invece una violazione di legge (ed esattamente, degli artt. 51 e 595 cod. pen., nonché degli artt. 2043 cod. civ. e 21 Cost.) non osta all’ammissibilità dello stesso.
Al riguardo, infatti, va ribadito – sulla base di quanto chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte – come l’onere della “specificità ex art. 366, comma 1, n. 4) cod. proc. civ., secondo cui il ricorso deve indicare «i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondano» non debba essere inteso quale assoluta necessità di formale ed esatta indicazione dell’ipotesi, tra quelle elencate nell’art. 360, comma 1, cod. proc. civ., cui si ritenga di ascrivere il vizio, né di precisa individuazione degli articoli, codicistici o di altri testi normativi (nei casi di deduzione di violazione o falsa applicazione di norme sostanziali o processuali), comportando invece l’esigenza di una chiara esposizione, nell’ambito del motivo, delle ragioni per le quali la censura sia stata formulata e del tenore della pronunzia caducatoria richiesta, che consentano al giudice di legittimità di individuare la volontà dell’impugnante e stabilire se la stessa, così come esposta nel mezzo d’impugnazione, abbia dedotto un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocamente, riconducibile ad alcuna delle tassative ipotesi di cui all’art. 360” citato (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sentenza 24 luglio 2013, n. 17931, Rv. 627268-01).
Nella specie, come detto, il ricorrente ipotizza – nella sostanza – un vizio motivazionale, la cui ricorrenza va, però, esclusa.
6.1.3. Invero, il giudice d’appello ha ritenuto che gli articoli per cui è causa recassero la notizia dell’avvenuta iscrizione del nome del Pirillo nel registro degli indagati, nell’ambito di un’inchiesta giudiziaria che vide coinvolti anche altri soggetti e finalizzata ad accertare la commissione di illeciti penali nella procedura per il trasferimento di un istituto scolastico presso un’altra struttura, reati che sarebbero stati perpetrati anche attraverso ’utilizzo di una falsa perizia.
La Corte territoriale, nell’affermare la verità dei fatti pubblicati, ha negato ogni rilevanza alla circostanza che negli articoli di stampa si fosse attribuito al Pirillo l’incriminazione per il delitto di falsa perizia, e non quello (più grave) di concussione, effettivamente addebitatogli.
Ciò detto, la Corte territoriale – nel pervenire a tale conclusione – ha svolto un ragionamento, che seppur nella sua sinteticità, appare congruo e logico, immune da quei vizi di “irriducibile contraddittorietà”, ovvero di “incomprensibilità o perplessità”, idonei ad integrare l’ipotesi della motivazione apparente.
La sentenza impugnata, infatti, si è richiamata al principio secondo cui, quando un giornalista, nel narrare un fatto di cronaca vero nei suoi aspetti generali, riferisca una circostanza inesatta, tale fatto non è di per sé produttivo di danno, occorrendo stabilire caso per caso, con giudizio di merito insindacabile in sede di legittimità, ove adeguatamente e logicamente motivato, se la discrasia tra la realtà oggettiva ed i fatti così come esposti nell’articolo abbia effettivamente la capacità di offendere l’altrui reputazione, senza che assuma rilievo quanto successivamente accertato in sede giurisdizionale, atteso che il criterio della verità della notizia deve essere riferito agli sviluppi di indagine ed istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell’articolo (così Cass. Sez. 3, ord. 9 maggio 2017, n. 11233, Rv. 44194-01, citata dalla sentenza impugnata).
Si tratta, peraltro, di principio costante nella giurisprudenza di questa Corte, che ha ripetutamente escluso che la verità della notizia sia “scalfita peraltro da inesattezze secondarie o marginali, inidonee a determinarne o ad aggravarne la valenza diffamatoria” (così già Cass. Sez. 3, sent. 4 luglio 1997, n. 6041, Rv. 5057381-01; ma nello stesso senso, successivamente, Cass. sez. 3, sent. 20 ottobre 2009, n. 22190, Rv. 610311-01; Cass. Sez. 3, sent. 19 novembre 2010, n. 23468, Rv. 615778-01; Cass. Sez. 3, sent. 26 agosto 2014, n. 18264, Rv. 632094-01), del quale è stata fatta applicazione persino con riferimento al caso – di certo più grave di quello dell’erronea indicazione di una fattispecie di reato per un’altra – di inesattezza relativa “alla notizia della richiesta di rinvio a giudizio, sebbene tale iniziativa non fosse stata assunta anche nei confronti del ricorrente” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 27 agosto 2015, n. 17197, Rv. 636476- 01).
Sotto questo profilo, dunque, va esclusa – come detto – la ricorrenza di qualsiasi profilo di “irriducibile contraddittorietà”, ovvero, “perplessità e incomprensibilità” delle argomentazioni poste dalla Corte territoriale a fondamento del suo “decisum”.
6.2. Il secondo motivo è inammissibile.
6.2.1. In questo caso si censura la decisione della Corte territoriale perché, nel “ribaltare” la decisione del primo giudice, pur ritenendo integrata la scriminante ex art. 21 Cost., nulla avrebbe detto in relazione al requisito della continenza formale della notizia, incentrando la propria motivazione esclusivamente sulla verità della stessa.
Di conseguenza, debbono ritenersi – almeno in astratto – sussistenti le condizioni per quel “controllo affidato al giudice di legittimità” che investe, come visto, proprio la “verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie”.
Nondimeno, il motivo – proposto ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. – risulta inammissibile, ai sensi dell’art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ., in quanto il ricorrente avrebbe dovuto indicare il “fatto storico”, il cui esame è stato omesso, e con esso il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8054, Rv. 629831-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 11 aprile 2017, n. 9253, Rv. 643845-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 10 agosto 2017, n. 19987, Rv. 645359-01).
Per contro, in relazione alla necessità del rispetto del criterio della “continenza formale”, il ricorrente si è limitato genericamente ad osservare che il primo giudice – diversamente dalla Corte territoriale – aveva evidenziato il tono scandalistico della notizia pubblicata, mentre la sentenza impugnata avrebbe omesso di pronunciarsi sul punto.
Tuttavia, la doglianza in parola risulta generica, non essendo, in particolare, individuate le espressioni, contenute negli articoli, rispetto alle quali andava valutare la continenza della notizia, né le modalità con cui esse hanno formato oggetto di discussione tra le parti.
Invero, “in relazione ad una causa risarcitoria avente ad oggetto dichiarazioni asseritamente diffamatorie compiute a mezzo stampa, la parte che muova critiche alla valutazione compiuta dal giudice di appello, sia in fatto che in diritto, circa la natura diffamatoria dello scritto in questione e la sussistenza del relativo reato, è tenuta, in ossequio al cosiddetto principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ad individuare – se del caso riproducendolo direttamente, ove necessario in relazione all’oggetto della critica di cui al motivo, ed eventualmente indirettamente, ove l’apprezzamento della critica lo consenta – il contenuto dell’articolo nella parte cui la critica si riferisce, specificando anche dove la Corte possa esaminarlo per verificarne la conformità del contenuto riprodotto rispetto a quello effettivo” (Cass. Sez. 3, sent. 11 febbraio 2009, n. 3338, Rv. 606542- 01).
Ciò comporta, dunque, l’inammissibilità del motivo.
7. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.
8. A carico del ricorrente sussiste, infine, l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
PQM
La Corte rigetta il ricorso, e, per l’effetto, condanna Maurizio Pirillo a rifondere, alla società Giornale di Sicilia Editoriale Poligrafica S.p.a., le spese del presente giudizio, liquidate, nel complesso, in euro 7.200,00, più euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 28 gennaio 2020.
Depositata in cancelleria il 26 giugno 2020