Il morto numero 13 in Ucraina e gli obblighi del giornalismo che impone scelte crudeli

Cronisti dall’inferno, ma testimoni della verità

ROMA – Tra le mille immagini che, ogni giorno, raggiungono il “mondo normale”, quello che assiste con l’abitudinario distacco che segna la distanza dai luoghi di una guerra, ce ne sono alcune che danno più di altre il segno del dramma che si sta vivendo in Ucraina.

Diego Minuti

Anche se è difficile fare una graduatoria tra quelle che provocano maggiore impatto emotivo, gli scatti che hanno crudamente resocontato gli effetti dell’attacco russo ad una colonna di auto civili che si stava allontanando dal carnaio di Zaporizhzhia ci hanno fatto piombare nell’evidenza, quella che talvolta ci ostiniamo a negare.
L’evidenza è che la guerra è sempre crudele, anche per chi la vince; che le vittime innocenti restano tali, quale che sia lo schieramento al quale appartengono, spesso involontariamente; che una vittoria militare sul campo può essere ribaltata anche solo da uno scatto fotografico, da pochi secondi di ripresa video, magari anche solo immagine catturate con un telefono cellulare.
M’è capitato di “guardare” alla recente strage di Zaporizhzhia attraverso il racconto di alcuni colleghi, che, arrivati sul posto in tempo – quanto crudele è questo concetto – per potere vedere gli effetti dell’attacco russo: cadaveri lungo la strada e dentro le automobili; morti con ancora le mani a stringere il volante dei veicoli che avrebbero dovuto portarli al sicuro; le buche causate sull’asfalto dai proiettili.
Immagini crude e dolorose, che hanno raccontato come la morte sia arrivata dal cielo su una colonna di macchine che, ordinatamente incolonnate, stavano uscendo dal perimetro dei bombardamenti contro Zaporizhzhia e che sono state fermate dalle bombe.
È facile dire che, davanti agli effetti della guerra, non si può redigere una classifica dell’orrore. Non è completamente vero, perché alcuni scatti o frame più di altri danno la misura di un dramma collettivo, quale è ormai la guerra russa contro l’Ucraina.

Luis de Vega, inviato del quotidiano spagnolo El Pais

Una scena mi ha colpito più delle altre, nel breve resoconto filmato pubblicato sul sito del quotidiano spagnolo El Pais. Nel filmato, poco più di un minuto, sulla colonna sonora del racconto dell’inviato speciale di El Pais, Luis de Vega, c’era anche uno scatto, che forse più degli altri – anche di quelli che “raccontavano” per immagini la morte di donne e bambini, di giovani e anziani – ha resocontato l’orrore, che aumenta i suoi effetti quando si mischia ad una apparente normalità. È stata l’immagine di un uomo, dai pantaloni e dalla giacca neri, ancora dentro l’abitacolo della sua vettura, dal tetto e dalle fiancate crivellate da proiettili e frammenti di metallo scagliati dalle bombe. L’uomo si trovava sul sedile posteriore di una vettura e l’attacco non gli ha lasciato scampo: dalla foto si vedevano solo delle striature di sangue scendergli dal viso e dal collo e non le ferite che lo avevano ucciso. I primi ad arrivare sono stati dei soldati che (obbedendo alle disposizioni che sono state date dalle autorità ucraine, a caccia di elementi per supportare l’accusa di crimini contro l’umanità che vogliono muovere contro la Russia) hanno soccorso i feriti, limitandosi a coprire i cadaveri, lasciandoli laddove la morte li aveva raggiunti.
L’uomo dentro l’auto è rimasto lì sino a quando la rimozione del cadavere è stata autorizzata dai funzionari della polizia e dagli ufficiali dell’esercito ucraini, che continuano a raccogliere prove ed elementi d’accusa per rimpinguare i dossier che sono aggiornati quotidianamente e che raccontano la guerra per le atrocità attribuite ai russi. Prima ancora di spostare il cadavere, i soldati, che non avevano potuto cercagli addosso i documenti d’identità, l’hanno “catalogato”, scrivendo con un pennarello sul collo – l’unica parte del corpo scoperta, insieme al viso – un numero, 13, per identificarlo sia pure provvisoriamente.
L’inviato di El Pais, davanti a quel cadavere, così come probabilmente aveva fatto anche con gli altri, si è fermato per qualche secondo, per capire quel che era accaduto. È stato in quel frangente che ha sentito lo squillo di un cellulare. E lo ha sentito arrivare dalla giacca che indossava l’uomo ucciso. Uno, due, tre e molti squilli ancora. Chi era dall’altro capo dell’immaginario filo che collegava i due telefoni ha quindi staccato. Ma forse è stata la stessa persona (un figlio, la moglie, un amico?), a distanza di pochi secondi, a tornare a chiamare, ancora squilli che sono rimasti senza risposta. Un altro tentativo, un ultimo tentativo. Poi nulla, il silenzio. Ma spesso il silenzio è fatto di parole non dette. Mentre gli inviati stranieri – anche i più esperti, quelli che la professione ha portato a confrontarsi con il Male assoluto – si aggiravano sgomenti davanti alla ferocia della guerra, il tempo ha ripreso a marciare. Quell’uomo, ucciso ad un passo dalla salvezza e che probabilmente è stato identificato, per i giornalisti, che devono restare testimoni della verità, resterà “il morto numero 13”. (giornalistitalia.it)

Diego Minuti

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