Intervista al presidente dell’Associazione dei giornalisti croati, Saša Leković

Croazia: giornalisti, criminali e interesse pubblico

Saša Leković

Saša Leković

Osservatorio Balcani e Caucaso

ZAGABRIA (Croazia) – Saša Leković, neopresidente dell’Associazione dei giornalisti croati (Hnd), si occupa di giornalismo da più di trent’anni. Fondatore e direttore del Centro per il giornalismo d’inchiesta, è il primo giornalista freelance a presiedere l’associazione nazionale di categoria.
Con lui abbiamo parlato dell’attuale realtà di questa organizzazione e di altri temi correlati, quali lo stato della libertà di stampa in Croazia e nella regione, la persistente mancanza di una strategia nazionale per i media e l’evidente erosione dei diritti della professione, ma anche dei possibili modi e metodi di lotta per cambiare questo stato di cose.
Quale situazione ha riscontrato nell’Hnd una volta assunta la carica di presidente? Che cosa ha ritenuto soddisfacente e cosa invece meno? Pensa che ci sia bisogno di ristrutturare l’ente e introdurre nuovi metodi di lavoro?
È già da tempo che avevo notato la scarsa capacità dell’Hnd di influire sull’opinione pubblica riguardo ai temi relativi alla libertà di stampa e di espressione, nonché a tutti quei principi sanciti dal nostro statuto che siamo tenuti a promuovere. Questo è ciò che mi ha colpito di più, ma non penso sia una cosa irreparabile.
L’Hnd è un’organizzazione molto complessa, dobbiamo occuparci di diverse attività “atipiche”, come ad esempio affittare spazi di cui dispone la nostra sede. Penso che all’interno della stessa associazione sia a lungo mancata la consapevolezza di questa complessità. Poi c’è la questione delle leggi rispetto alle quali vorremmo reagire, sia che si tratti di leggi inadeguate che occorrerebbe cambiare sia di quelle buone che mancano di essere attuate.
Certo che dovremo modificare alcuni metodi di lavoro, il che necessariamente comporterà ulteriori cambiamenti. Vorrei che ci dedicassimo con più serietà all’attività editoriale ed educativa. Un progetto che siamo già riusciti a mettere in piedi riguarda il Centro per la difesa della libertà di espressione che unisce un ottimo team di esperti giuridici e per le sue dimensioni mi sembra unico da queste parti, e non solo.
Lei si è occupato a lungo di giornalismo investigativo, tra l’altro anche come fondatore del Centro per il giornalismo d’inchiesta e come responsabile di attività di questo tipo presso l’Europapress Holding (Eph) e il Media Centar di Sarajevo. Come giudica l’attuale situazione del giornalismo investigativo in Croazia? Quanto spazio e appoggio viene effettivamente concesso a questo tipo di giornalismo?
Come giornalista freelance pratico tuttora il giornalismo investigativo e continuo a coordinare il Centro per il giornalismo d’inchiesta che, seppur piccola, è un’organizzazione rilevante. Per quanto riguarda il giornalismo investigativo in Croazia, penso che la situazione non sia mai stata come si cercava di farla apparire, nel senso che nel nostro paese questo tipo di giornalismo non ha mai prosperato molto. Al giorno d’oggi va tanto di moda finire un articolo con la firma “team investigativo” o presentare certi reportage come frutto di lavoro di investigazione, anche se molto spesso non vi è nulla di investigativo.
Sia come sia, il giornalismo d’inchiesta, là dove c’è, risulta sempre la prima vittima. In periodi di crisi, le prime a subire tagli sono sempre le attività più costose che nel settore dei media riguardano in particolare l’ambito dell’investigazione giornalistica, la quale però – ci tengo a sottolinearlo – non deve per forza essere costosa. Ciò che la rende tale è spesso solo un’inadeguata organizzazione del lavoro redazionale.
Un altro elemento rilevante riguarda il fatto che nel nostro paese tutto risulta interconnesso: c’entra molto chi sono i proprietari dei media e quali i loro legami con diversi politici, tycoon e criminalità organizzata. Nella loro ottica, semplicemente non vi è alcun bisogno di un serio giornalismo d’inchiesta, mentre la società ne ha certamente bisogno perché si tratta di un’attività di potenziale rilevanza pubblica, cosa che ovviamente non rientra tra le priorità degli odierni proprietari dei media. Capita che anche lo stesso pubblico di certi media, semplicemente perché cresciuto in questo clima di perenne transizione, faccia fatica a distinguere tra un titolo sensazionalistico e un autentico reportage investigativo.
Quel che manca, persino tra gli stessi giornalisti, è un elementare alfabetismo mediatico, un altro tema su cui occorrerebbe impegnarsi di più all’interno dell’Hnd.
L’anno scorso è entrata in vigore in Bosnia Erzegovina una delle leggi più esaustive a livello europeo in materia di protezione dei whistleblower (informatori interni ad un’azienda che rivelano eventuali frodi o attività illegali). Lei è uno dei curatori ed editori del libro “La verità – coscienza al di sopra del segreto bancario” sul caso della nota “gola profonda” Ankica Lepej. Quale la situazione in Croazia riguardo alla protezione degli informatori?
In Croazia il nocciolo del problema sta nell’intrecciarsi dei vari poteri e delle loro sfere di influenza. Il nostro paese è ancora profondamente immerso nella transizione, sprovvisto di una cultura democratica pienamente sviluppata, ivi compresi i grandi media democratici. Nulla è sufficientemente adeguato, e ciò vale anche per la protezione dei whistleblower.
A questo proposito, vorrei menzionare una mia esperienza di una decina di anni fa, quando proprio in Bosnia ero impegnato nel progetto “Netnovinar”. All’epoca il paese già disponeva di un’ottima legge sulle informazioni di rilevanza pubblica e, essendo curioso di sapere quanta conoscenza ne avessero i giornalisti, ho sollevato la questione durante un workshop sul giornalismo d’inchiesta. Dei trenta giornalisti presenti in quell’occasione, solo due hanno alzato la mano. Si tratta quindi anche di valutare la misura in cui gli stessi giornalisti sono a conoscenza e fanno riferimento alle leggi vigenti.
È vero che i giornalisti sono una specie minacciata, ma a volte la colpa della situazione in cui si trovano ricade su loro stessi perché sono ancora in molti ad essere scarsamente informati, soprattutto riguardo a certi documenti, norme e leggi. È ottimo che esistano buone leggi sui whistleblower, ma occorre che qualcuno ne sia a conoscenza, insistendo che vengano attuate.
Lei collabora spesso con giornalisti ed esperti del settore di tutta la regione. Come valuta lo stato della libertà di stampa in Croazia rispetto ad altri paesi della regione? Siamo tutti sulla stessa barca?
Sì, più o meno, anche se esistono certe differenze conseguenti da diverse realtà nazionali. In Macedonia, ad esempio, la situazione è ulteriormente aggravata dall’esistenza di legami, molto espliciti, tra mondo politico-mediatico e quello della criminalità organizzata. Lì i giornalisti finiscono spesso per essere arrestati, o persino uccisi, e i media indipendenti sono praticamente inesistenti.
In Serbia, invece, il governo riesce a mantenere il controllo sulla maggior parte dei media, mentre quei pochi ancora indipendenti, più che media nel senso classico del termine, sono in realtà diverse organizzazioni, come ad esempio Birn, conosciute a livello internazionale per il loro impegno nel giornalismo investigativo e nell’educazione dei giornalisti. Non c’è da stupirsi, quindi, se questi media vengono additati come nemici dello stato, e in questo senso la situazione croata non è molto diversa, anche se da noi il governo non esercita un controllo così rigoroso sulla maggior parte dei media mainstream, come invece accade in Serbia.
Come uno dei fondatori di Jutarnji list, come valuta l’attuale stato di salute di questo quotidiano? Pensa che il contenuto delle sue pubblicazioni sia compatibile con gli standard della professione?
Come di solito accade, tutto ciò che si faceva da giovani, o che comunque appartiene al passato, continua a sembrarci più valido. A quei tempi, il solo fatto di voler fondare un quotidiano presupponeva parecchio coraggio, in più sensi. Era molto difficile trovare le persone giuste perché tutti avevano paura che non sarebbe durata a lungo. A volte eravamo costretti a reclutare gente “dalla strada” per cui non c’è dubbio che, dal punto di vista professionale, si poteva fare anche meglio. Tuttavia, mi pare che ci fossero anche dei temi affrontati in modo serio ed approfondito, sicuramente molti di più di quanti ce ne siano oggi. Questo, però, non è un problema esclusivo di Jutarnji list in quanto comune alla maggior parte dei media croati. Basti pensare ai temi che dominano le prime pagine dei nostri giornali, ai titoli più letti sui grandi portali web. In Croazia non esiste affatto un quotidiano serio, esistono solo i tabloid e semi-tabloid.
Quanto è soddisfatto del modo in cui la Radio Televisione Croata (Hrt) cerca di adempiere alla propria funzione di servire l’interesse pubblico? Di quanto spazio di manovra dispone l’Hnd nell’agire affinché le cose cambino in questo ambito?
La Hrt è un servizio pubblico ma purtroppo, come del resto molti altri media pubblici nella regione, non è sufficientemente pubblica né immune dalla contingenza politica, che influisce su tutto, comprese le costanti modifiche della legge sul servizio pubblico, specie quelle riguardanti l’elezione del direttore e la definizione delle sue competenze.
La televisione pubblica sembra sforzarsi troppo di fare concorrenza alle emittenti commerciali, il che non deve essere necessariamente una cosa negativa, a patto che si cerchi di mantenere il livello di qualità raggiunto, che però in questo caso risulta spesso compromesso. Occorre sottolineare, tuttavia, che la Hrt produce anche dei programmi di qualità, ma siccome da queste parti si è abituati a percepire tutto in bianco e nero, astenendosi da qualsiasi analisi più dettagliata, spesso si è incapaci di riconoscere tali sfumature.
In che cosa consiste secondo lei fare un giornalismo al servizio dell’interesse pubblico? La legislazione esistente lo definisce in modo adeguato? È proprio il concetto dell’interesse pubblico che sta alla base di ogni strategia mediatica…
Il problema è giustamente quello – noi non abbiamo ancora una strategia per i media, la cui proposta a breve dovrebbe essere sottoposta al dibattito pubblico. Questo lungo mancare di una precisa strategia rappresenta un grande problema perché da essa dovrebbe conseguire tutto il resto. È del tutto innaturale che, pur avendo molti media, diverse norme e leggi, continui a mancare una strategia, in assenza della quale non stupisce che la concezione dell’interesse pubblico risulti poco chiara.
Quando si parla di pubblico interesse, di regola lo si fa ricorrendo a certi principi generali, prestabiliti, senza mai fornire una precisa definizione di tale concetto. A questo proposito, vorrei ritornare alla sua precedente domanda per sottolineare un aspetto del dibattito sulla relazione HRT-televisioni commerciali che trovo piuttosto distorta. Non c’è dubbio che la priorità della HRT come servizio pubblico dovrebbe essere quella di servire l’interesse pubblico, ma credo che lo stesso dovere spetti anche alle televisioni commerciali. Da noi c’è questa confusione, intenzionale o meno, sul fatto che le emittenti commerciali non siano obbligate a soddisfare le benché minime condizioni di professionalità, mentre in realtà tutti i media sono tenuti a giocare secondo le regole della professione: non mentire, non dare priorità alle notizie e ai temi privi di rilevanza, informare il pubblico in maniera corretta e completa.
Prima ha menzionato quanto sia importante l’esistenza di una strategia nazionale per i media. Come commenterebbe il processo della sua elaborazione portato avanti dal ministero della Cultura da ormai tre anni? I materiali finora resi pubblici le sembrano promettenti?
Negli ultimi tre mesi ho avuto modo di partecipare attivamente a queste riunioni e mi sono molto entusiasmato per l’elaborazione della strategia. Ora praticamente aspetto di vedere la bozza finale, dopodiché cercherò, insieme al mio team, di formulare obiezioni più concrete nonché qualche proposta.
Credo che non abbia senso discutere dei dettagli prima che si arrivi alla bozza finale e al dibattito pubblico. Certo che rimango un po’ scettico dati i tempi così lunghi dell’intera vicenda, ma aspettiamo di vedere come andrà a finire. Bisogna tener conto anche del fatto che tra non molto ci saranno le elezioni, dopo le quali il destino della strategia rimarrà incerto. Si sa bene che da noi cambia tutto dopo le elezioni, è un tourbillon pericoloso, insensato, ma è la nostra realtà.
Il portale Fairpress.eu, giudicato come il migliore tra i nuovi portali web al recente concorso indetto dal ministero della Cultura per i media non profit, non è ancora iscritto nel registro delle pubblicazioni elettroniche del Consiglio per i media elettronici. Fairpress ha infatti ricevuto dal Consiglio una risposta negativa alla sua richiesta di registrazione. Il Consiglio le ha fornito una spiegazione di tale decisione?
Sono venuto a conoscenza di questo caso dopo essere stato contattato dalla redazione di Fairpress, cosicché ho deciso di chiedere una spiegazione al Consiglio. Tuttora non mi risulta chiaro come si sia arrivati a questo malinteso e ci tengo a capirlo.
I responsabili del portale sostengono che il Consiglio aveva indicato come ragione principale della sua decisione il fatto che Fairpress non pubblica almenotre testi d’autore alla settimana, il che – come hanno spiegato in un loro post – non è vero. Dal Consiglio mi hanno appena informato che lunedì 17 settembre dovrebbero incontrarsi con i rappresentanti del portale per risolvere il problema relativo all’iscrizione nel registro dei media elettronici. Vorrei però aggiungere che l’Hnd non funge da poliziotto mediatico, noi inoltriamo richieste e chiediamo spiegazioni, ma non possiamo obbligare nessuno a risponderci.
Restando su questo tema, ritiene che la legge sui media elettronici e relativi decreti attuativi emanati dal Consiglio competente siano adeguati alle esigenze del mercato dell’editoria digitale? L’Hnd ha intenzione di sollecitare modifiche alla legislazione esistente?
È un grande problema, e non solo in Croazia. Internet ha cambiato molte cose nel giornalismo, mentre le leggi sono rimaste in larga misura anacronistiche, cioè focalizzate sui media classici. La prassi ha sorpassato la teoria, ma questo non deve essere una giustificazione né può assolverci dalla colpa per il persistere di leggi lacunose.
Certo che abbiamo intenzione di sollecitare alcune modifiche alla legislazione esistente, e in questo senso puntiamo sull’attività del nostro Centro per la difesa della libertà di espressione, ma anche sulla collaborazione con altre istituzioni ed organizzazioni attive nell’ambito della politica dei media ed impegnate nella difesa della libertà di stampa. Recentemente ci siamo attivati, insieme all’organizzazione non governativa Gong, per sollevare l’attenzione sui tentativi del governo di modificare la legge sul diritto all’informazione, il cui allineamento alla normativa europea rischia di essere strumentalizzato per far passare di nascosto certe modifiche molto pericolose.
Recentemente lei è finito nel mirino di alcuni media per aver partecipato all’organizzazione di una conferenza stampa sul procedimento penale a carico dell’associazione Zagreb Pride, conclusosi a favore della denunciante, la giornalista Karolina Vidović Krišto. Perché l’Hnd ha ritenuto importante partecipare all’organizzazione di questa conferenza?
Quegli attacchi, completamente strumentalizzati, avevano un unico obiettivo, quello di screditare la nostra associazione. Penso che il motivo principale stia nel fatto che l’Hnd non si lascia intimidire e continua a fare il proprio lavoro.
Dato che la Vidović Krišto aveva vinto la causa in primo grado, Zagreb Pride ha voluto indire questa conferenza insieme ad altre organizzazioni che, come rappresentanti di diverse minoranze e gruppi vulnerabili, hanno sentito minacciata la propria libertà di espressione.
Abbiamo trovato interessante quest’iniziativa perché offriva la possibilità di discutere sul conflitto tra due diritti alla libertà di espressione – il diritto del giornalista e quello delle minoranze. Credo che l’Hnd abbia il dovere di proteggere le minoranze da qualsiasi attacco ed è in questo senso che abbiamo voluto discutere sul diritto alla libertà di espressione e i suoi limiti, e certo non sulla legittimità della sentenza stessa. Per quanto invece riguarda quest’ultima, Vesna Alaburić, nostra esperta di diritto dei media, ne ha offerto un’interpretazione interessante: essa infatti sostiene che la sentenza sia giusta in quanto dimostra che essere omofobo non è una cosa di cui vantarsi bensì un insulto, per cui la Vidović Krišto aveva ragione di sentirsi insultata.
Pare che la scena mediatica croata si stia ormai decomponendo. Nei soli ultimi due mesi si è assistito al susseguirsi di tutta una serie di fenomeni: minacce di licenziamento e licenziamenti effettivi; attacchi fisici ai giornalisti e il loro preludio mediatico; una forte propensione, comune alla maggior parte dei media, a riportare in maniera assolutamente acritica gli eventi legati alla celebrazione del ventennale dell’operazione militare Oluja nonché i dati relativi al rapimento di Tomislav Salopek. Lei stesso ha recentemente scritto sulla rivista Novinar (organo ufficiale dell’Associazione dei giornalisti croati) che “il giornalismo in Croazia sta vivendo una crisi profonda, inginocchiato davanti all’offensiva di perfide alleanze tra politica, finanza e malaffare”. Può dirci qualcosa in più al riguardo, approfondire questa considerazione?
Di problemi ce ne sono veramente tanti, molti dei quali abbiamo già toccato durante questa conversazione. Potrei inoltre aggiungere le inserzioni pubblicitarie, che influiscono sul funzionamento dei media mainstream a tutti i livelli, oppure la criminalità organizzata, un fattore che spesso rende impossibile scoprire chi sono i veri proprietari di determinati media, da dove provengono le loro risorse finanziarie, come vengono spese, ecc.
Un altro problema riguarda la mancanza di coerenza nella politica redazionale – un giorno si scrive una cosa e il giorno dopo qualcosa di completamente diverso. È del tutto legittimo che un media scelga di caldeggiare una determinata opzione politica a patto che lo faccia basandosi sui fatti. In Croazia invece siamo testimoni di queste situazioni assurde in cui certi media pretendono di giocare per la squadra di estrema destra, altri per quella di estrema sinistra, mentre nessuno si basa sui fatti né su solidi argomenti, e tanto meno dispone di professionalità nello svolgere il proprio lavoro. Si è diventati completamente ignari di quella regola base del dover avere sempre perlomeno due fonti non anonime. Non deve stupire se prevale il dilettantismo.
Cosa può fare l’Hnd per prevenire un’ulteriore erosione della professionalità? Nonostante sia già evidente una maggiore prontezza e fermezza nel vostro modo di reagire a determinate situazioni, persiste il timore che tutto rimanga limitato alle semplici dichiarazioni.
Vi è sempre il pericolo che qualcuno sostenga che l’Hnd non fa altro che scrivere comunicati stampa, ma coloro che esprimono questi giudizi, lo faranno in ogni caso. Noi comunque continueremo a reagire a certi eventi e ad esprimere le nostre posizioni, perché non ci sembra una cosa del tutto inutile. A seguito del nostro comunicato sul caso di Tomislav Salopek ad esempio, sia il ministero degli Affari Esteri che l’Ufficio della presidente hanno deciso di rivolgersi ai media, i quali poi hanno rallentato un po’ la loro corsa alle notizie.
Ovvio che la nostra attività non è circoscritta ai comunicati stampa, i quali però rimangono la cosa più visibile all’opinione pubblica. Ogni mese scrivo una relazione sulle attività svolte, consultabile sul nostro sito; il nostro Centro per la libertà di espressione fornisce, dal primo giorno, servizi di consulenza legale pro bono a tutti i giornalisti che ne hanno bisogno; partecipiamo attivamente alle discussioni sulle modifiche legislative, ecc.
Proprio in questi giorni siamo riusciti a conseguire un obiettivo importante, quello che riguarda il diritto dei giornalisti freelance e collaboratori autonomi ad aprire un conto protetto nel caso del blocco di uno dei loro conti correnti. Si trattava dell’unica categoria di giornalisti a cui veniva ripetutamente, e illegittimamente, negato l’esercizio di questo diritto. La normativa è stata infatti modificata in modo da rendere possibile ai giornalisti freelance di aprire un tale conto, ma il coordinamento tra l’Agenzia delle entrate, la Fina (Agenzia statale delle finanze) e il ministero competente era talmente inefficace da generare molteplici problemi nella prassi applicativa, che adesso finalmente stanno per essere risolti. Per quest’autunno sono inoltre previste ulteriori modifiche alla legislazione esistente miranti ad una piena equiparazione dei diritti di questa categoria con quelli degli altri giornalisti e iscritti agli ordini professionali.
Lei è il primo giornalista freelance a capo dell’Associazione dei giornalisti croati. Quanto importante è questo fatto e in che modo potrebbe influenzare la percezione che si ha, sia tra gli stessi giornalisti che nell’opinione pubblica, di questa associazione?
Penso di essere addirittura il primo giornalista freelance al mondo a presiedere un’associazione di categoria. Cosa del tutto logica se si considera che i giornalisti freelance aspirano di rado a questo tipo di funzioni, perlopiù riservate ai rappresentati di aziende mediatiche e grandi redazioni, soprattutto in quelle organizzazioni dove tutto funziona sul principio della delega. Quindi credo che sia una cosa importante perché io ho molte meno inibizioni di quante ne avrebbe qualcun’altro nella mia posizione. Sono ormai anni che lavoro come giornalista freelance, per cui non ho paura che qualcuno mi possa licenziare né che le mie azioni vadano interpretate come favoreggiamento degli interessi del media per il quale lavoro.
Dopo tanti anni di presenza nel mondo del giornalismo, consapevole della situazione conformistica in cui esso si trova attualmente, perché ritiene sensato continuare a lottare per un giornalismo etico e professionale?
Perché ha sempre senso lottare per le cose buone e giuste, e questo vale anche per il giornalismo. Io non vedo altro modo per fare giornalismo. Non è una cosa che faccio per guadagnare, è la mia vocazione – il giornalismo lo vivo. (Osservatorio Balcani e Caucaso/H-Alter)

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