ROMA – Il Covid si porta via un altro giornalista: si è spento a Roma, dove viveva da tanto tempo mantenendo, però, forti legami con Fano, la sua città natale, Angelo Sferrazza, 84 anni. Era ricoverato dal 23 novembre scorso in un ospedale della capitale dopo aver contratto la malattia da coronavirus che, complice l’età avanzata, gli è stata fatale.
Nato il 25 marzo 1936 nella cittadina in provincia di Pesaro, Angelo Sferrazza era giornalista pubblicista iscritto all’Ordine del Lazio dall’8 marzo 1971.
Dirigente della Rai, dove diventò vicedirettore delle Teche quale esperto di Storia della comunicazione radiotelevisiva, fu anche consulente della Copeam, la Conferenza permanente dell’audiovisivo del Mediterraneo.
Con un passato politico nelle fila della Democrazia Cristiana – negli anni Sessanta era stato eletto nel Consiglio comunale di Fano in rappresentanza della Dc – è stato, inoltre, vicepresidente e segretario nazionale dell’Ucsi, l’Unione cattolica della stampa italiana.
Lasciate le Marche per Roma, Sferrazza divenne responsabile dell’Ufficio Esteri della Democrazia Cristiana, presidente dell’Associazione nazionale dei partigiani cattolici, presidente dell’Unione mondiale Giovani Dc (carica, quest’ultima, a cui teneva molto, confidano gli amici) e strinse illustri amicizie, tra cui quella con l’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. (giornalistitalia.it)
Riportiamo integralmente un racconto autobiografico sull’8 settembre 1943 con cui Angelo Sferrazza si classificò terzo, nel 2018, al Premio letterario “Una short story” indetto dal Rotary:
GLI ANGELI POVERI
Erano due stradine in salita, quasi sentieri, solitarie, troppo basse per vedere il mare, in mezzo a campi di stoppie esausti per la battaglia del grano. A destra e sinistra, allineate, casette bifamiliari giallognole, con un francobollo di giardino non sufficiente nemmeno per un minuscolo “orto di guerra”, ma con un grande fascio bianco sopra la porta d’ingresso. Sotto la strada nazionale 16, una casa cantoniera ben dipinta e l’osteria dell’Ilde, donna forte, da tener in riga la clientela di soli maschi, carrettieri di passaggio che trasportavano breccia estratta dal mare e dall’alba all’ora del coprifuoco, vecchietti che non rispettavano l’invadente cartello con su scritto: “In questo locale non si parla di politica, non si bestemmia e non si sputa per terra”, intimazioni che a secondo il grado etilico raggiunto, venivano golosamente violate. A farne le spese un certo liter, litro nel dialetto locale, anagramma di Hitler.
Verso il mare, tagliata dalla linea ferroviaria, una zona militare con un deposito di materiali ed armi, dove abitava la famiglia del maresciallo magazziniere. Intorno silenzio, rotto da qualche mezzo di passaggio, dai treni e dalla risacca del mare quando tirava il vento freddo del nord, ancora rare le sirene d’allarme. 25 luglio! Gran festa all’osteria, vino a fiumi, canti, privilegiata “bandiera rossa” con qualche variazione anarchica.
La gioia durò poco, la guerra continua, come dissero alla radio con voce convinta. Le madri, le mogli dovevano aspettare ancora. Una fine luglio ed un agosto confusi, con i vecchietti che non riuscivano, fra un bicchiere e l’altro, a dare un senso alle quotidiane analisi politiche! Unica consolazione, via dal muro il ritratto del duce e l’odiato cartello delle tre proibizioni! Ma l’otto settembre successe qualcosa di importante. Molti gioirono, con notevole ingenuità e per mancanza di informazione: la guerra è finita, la guerra è finita! No, la guerra non era finita e un saggio vecchietto dell’osteria sentenziò: “qualcuno ce la farà pagare”.
Per cinque o sei giorni si sperò che il Regio Esercito “ con il quale il popolo si stringe in una volontà sola per la difesa della Patria”, come si legge in uno dei tanti proclami di allora, avrebbe contenuto eventuali azioni tedesche. E ciò qua e là avvenne con gesti di eroismo, anche fuori d’Italia: ricordare Cefalonia. Le caserme si svuotarono, evaporò nel nulla la catena di comando. Un fiume di giovani militari si riversò sulle strade, prese d’assalto treni, camion, tutto ciò che si muoveva, cercando di liberarsi della divisa. I vecchietti dell’osteria, memori delle tristi ritirate del’17, lanciarono l’allarme. Aiutiamo questi ragazzi.
Le donne, madri, sorelle, mogli, erano pronte. Ogni ragazzo, appeso pericolosamente ai treni stracolmi che scendevano verso il sud era figlio loro. Le donne delle stradine aprirono l’armadio alla ricerca di indumenti vecchi, pochissimi. Presero coraggio, uscirono dalla loro isola e coraggiosamente si avviarono a bussare alle prime case della città da dove i treni non si vedevano. Trovarono altre madri, altre mogli e riempirono le ceste di pantaloni, camicie, scarpe. Difficile trovare da mangiare, era il tempo della tessera annonaria, già insufficiente per la quotidianità. E le donne che spesso sciamavano per i campi a raccogliere erbe da rivendere ai “cittadini” e d’estate a spigolare nei campi attorno, ripetendo gli stessi gesti della biblica Ruth, non si persero d’animo.. Si avviarono verso la campagna, verso case coloniche dove avrebbero sicuramente trovato qualcosa. I contadini, parsimoniosi, tenevano ben nascoste le provviste, ma anche in quelle famiglie c’era un figlio un marito in guerra. Tornarono indietro con pane e addirittura qualche salame. Si avviarono così in tre o quattro, una dietro l’altra sul calpestabile accanto alle rotaie, al limite della stazione. E aiutarono i ragazzi stanchi, spaventati. Li dissetarono con bottiglie d’acqua dell’osteria. Lo fecero due o tre volte, sempre in fila, silenziose. Passando davanti al deposito militare salutavano il piccolo figlio del maresciallo che accanto alla robusta rete di recinzione guardava i treni dei soldati in fuga. Quelli del deposito invece erano ancora lì, il maresciallo non aveva ricevuto nessun ordine. Decise da solo. Tornate a casa.
Quei soldati, “sedentari” perché non idonei alla guerra, erano della zona. Solo due rimasero, politicizzati, ad aiutare il maresciallo a rendere inservibili le armi. I tedeschi stavano arrivando. Dov’erano? Poi qualcuno disse che avevano occupato le due caserme centrali e presto sarebbero arrivati al deposito. Ancora una volto le donne delle stradine: corsero al deposito. In pochi minuti la famiglia del maresciallo fu accolta in una di quelle casette giallognole. Una mezz’ora dopo si sentì il rumore dei mezzi militari che arrivavano. Per alcuni giorni la famiglia fu nascosta e protetta e le donne divisero quel poco pane che avevano. Trovarono per il maresciallo vestiti civili e fecero sparire la divisa, correndo un grave rischio. Altri aiutarono poi la famiglia a trovare un rifugio in un paese vicino. Finì la guerra, la famiglia tornò, il deposito distrutto, distrutta la casa.
Le donne erano ancora lì. Ci fu un lungo abbraccio di riconoscenza e qualche lacrima. Gesti che si ripetevano fra tutti quelli che si rivedevano dopo “il passaggio del fronte”.
Molti anni dopo il figlio del maresciallo visitando S. Marco a Venezia, guardando le decorazioni musive del Battistero, fu colpito da tre angeli in fila, con l’aureola. A questa immagine se ne sovrappose un’altra, improvvisamente, inspiegabilmente, lontanissima nella memoria. Tre donne con la cesta in testa, come un’aureola, una dietro l’altra, che andavano ad aiutare i ragazzi in fuga sui treni. Tre angeli, tre angeli poveri.
Angelo Sferrazza
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