FIRENZE – Domani, primo agosto, farò 67 anni, l’età pensionabile. E per questo lascerò la direzione del Corriere Fiorentino. Ma senza alcuna intenzione di avviarmi al disarmo, per carattere e per educazione. Dopo dodici anni e mezzo non è semplice congedarsi dai propri lettori. È il momento in cui si affollano le emozioni. E si accavallano i ricordi.
Non spetta a me giudicare il risultato del mio impegno. Ma posso dire che il Corriere Fiorentino ha cercato di assolvere al suo compito con coerenza e onestà intellettuale. Quando abbiamo sbagliato abbiamo chiesto scusa. Ispirandomi a San Paolo, che parlava della sua fede, direi che abbiamo condotto una buona battaglia, conservando la fedeltà alle regole che governano (o che dovrebbero governare) il nostro mestiere. Prima fra tutte quella che ci chiede il rispetto dei protagonisti di ogni cronaca, famosi o sconosciuti che siano.
Fin dall’inizio abbiamo cercato di dare un contributo allo sviluppo di questa terra, alla sua crescita civile, alla liberazione da tutti quei municipalismi miopi che si sono frapposti alla modernizzazione della Toscana confondendo la difesa delle diversità, che sono preziose, con la chiusura reciproca, i veti, l’incomunicabilità.
Abbiamo cercato di contrastare con la massima energia il crescente degrado di Firenze, la sua progressiva perdita di identità e l’esplosione dell’overtourism che con il Covid 19 è improvvisamente crollato lasciando campo libero al suo contrario: la desertificazione del centro storico. Ma il cuore di Firenze aveva già da tempo perso la sua anima, popolato ormai da un manipolo di residenti superstiti; un guscio svuotato e riempito solo dagli interessi della rendita galoppante, aiutata dall’indifferenza o dalla politica delle condanne fatta solo di parole. Con pari intensità abbiamo combattuto la malamovida che in alcune zone delle nostre città sta uccidendo la convivenza civile mentre, ipocritamente, si fa finta di aggredire il problema.
Nel bilancio delle nostre sfide le sconfitte sopravanzano di gran lunga le vittorie, ma non ce n’è una alla quale, tornando indietro, rinuncerei. Mai abbiamo dichiarato guerre personali, anche se le critiche, a volte severe, ci hanno reso invisi nei palazzi del potere. A cominciare da Palazzo Vecchio, ripiegato spesso su una impermeabilità verso ogni sollecitazione, speculare alle inadeguatezze, con poche eccezioni, della giunta comunale.
Il mio primo editoriale, comparso il 28 febbraio del 2008, si intitolava «Una piazza diversa». Promettevamo un giornale che avesse una vocazione tutta sua nel panorama editoriale toscano. Abbiamo cercato di mantenere la promessa aprendo le pagine al confronto delle idee, senza pregiudizi ed esclusioni. In prima pagina ogni giorno è stato pubblicato un articolo di fondo, spesso accompagnato da altri commenti. Come dire che in questi anni abbiamo offerto oltre 6 mila spunti di riflessione. Un modo per crescere insieme. Ci abbiamo provato. E la formula dei due giornali in uno ha pagato i nostri sforzi, anche sotto il tiro di fuoco amico. Ma non è tempo di cullarsi in autocompiacimenti: la tecnologia impone nuove sfide, da affrontare con coraggio e anche con spregiudicatezza, consapevoli però che non c’è democrazia senza giornalismo e non c’è giornalismo che non sia studio, competenza, approfondimento. Vale per l’informazione nazionale e ancor di più per quella locale, che ha davanti a sé ancora terreni da arare, sfuggiti all’invasione dei social. La bussola resta comunque la stessa: quella della credibilità che dà autorevolezza.
La mia vita continua, anche quella professionale, spero. Ma oggi è l’occasione giusta per dire qualche grazie. Grazie innanzitutto alla memoria di Oriana Fallaci e Indro Montanelli: toscanissimi, grandi del giornalismo che ho avuto il privilegio di conoscere e che non mi hanno fatto rimpiangere di non essere diventato un architetto.
Grazie ai colleghi di tutte le testate in cui ho lavorato e che mi hanno dato qualcosa, poco o tanto, da imparare. Grazie ai direttori che hanno creduto alla mia lealtà ripagandomi con la stessa moneta.
Grazie ai lettori di questo giornale che ci hanno sostenuto a mano a mano che ci siamo estesi con la diffusione in tutta la regione; e a tutti quelli che mi hanno fermato per strada esortandomi a non mollare di fronte agli ostacoli e ai muri di gomma (una specialità fiorentina).
Grazie alle città che mi hanno accolto in quarant’anni di cammino: Firenze, Bologna, Milano e Siena, che mi ha adottato con una sua Contrada aprendomi anche le porte dell’Università. Grazie a mio padre e a don Otello che mi hanno insegnato semplicità e senso del dovere; a mia madre che mi ha trasmesso la sua infaticabilità; a mia moglie Patrizia, a mia figlia Maria Novella, a Vieri e al piccolo Pietro ai quali, sul lungarno delle Grazie come in via Solferino, ho sottratto quasi tutto il mio tempo.
Grazie agli amici. Non ho mai ricevuto pressioni e condizionamenti e di questo ringrazio l’Editore di adesso e chi lo ha preceduto. Per ultimo, l’abbraccio riconoscente al giornale che ho creato e che lascio, commosso e a testa alta. Esco come sono entrato, sotto ogni profilo. Consegno a Roberto De Ponti, nominato al mio posto, una squadra che si è conquistata sul campo il diritto a essere difesa e valorizzata. In alto i cuori. Come sempre. E sempre sarà. (giornalistitalia.it)
Paolo Ermini
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