ROMA – I casi di controllo a distanza dei lavoratori sono sempre più frequenti in Italia. E anche nelle redazioni. Ma quello che sta avvenendo con il decreto attuativo sulla semplificazione delle procedure, varato nei giorni scorsi dal Governo con il pacchetto Jobs Act, e ora al vaglio delle Camere per il parere consultivo, è definibile un colpo di spugna. Un colpo di spugna sull’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori e una novità che potrebbe smantellare diritti e tutele dei giornalisti nelle redazioni più di quanto in un primo momento si possa immaginare. Anche se il Contratto dei lavoro dei giornalisti pone, sul merito, ancora dei paletti incontestabili.
Ma vediamo cosa sta succedendo. Il Jobs Act, che contiene norme applicabili ai soli nuovi assunti, ha anche norme che riguardano tutti i lavoratori. Tra queste, viene stabilito che “accordo sindacale o autorizzazione ministeriale non sono necessari per l’assegnazione ai lavoratori degli strumenti utilizzati per rendere la prestazione lavorativa, pur se dagli stessi derivi anche la possibilità di un controllo a distanza del lavoratore”. E questo significa che l’intesa sindacale e l’autorizzazione ministeriale non sono necessarie per i computer, i tablet, gli smartphone e i telefonini messi a disposizione dei dipendenti da parte dell’azienda.
Analoga possibilità di controllo è estesa anche agli strumenti che servono a misurare ingressi, uscite e presenze come i badge. Questi ultimi sono sempre stati respinti dai Cdr delle grandi agenzie e testate tv e radio, dai grandi quotidiani e periodici, perché inconciliabili con l’indeterminatezza dell’orario di lavoro dei giornalisti. Ma per computer, tablet, telefonini eccetera, il limite di un possibile controllo a distanza nella nuova normativa è “che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d’uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196”, che sarebbe il codice sulla privacy. Solo questi due unici paletti.
Questa normativa va a infrangere con il modernissimo articolo 4 dello Statuto dei lavoratori. Che è sempre stato l’argine allo strapotere e all’evoluzione sempre più potente delle tecnologie. L’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori stabilisce: “È vietato l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”. Ancora: “Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l’uso di tali impianti”.
Dice ancora lo Statuto del 1970: “Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondano alle caratteristiche di cui al secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o con la commissione interna, l’Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, dettando all’occorrenza le prescrizioni per l’adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti”. La possibilità di ricorso: “Contro i provvedimenti dell’Ispettorato del lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo comma il datore di lavoro, le rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al ministro per il Lavoro e la Previdenza sociale”.
La Corte di Cassazione è più volte intervenuta in materia, sostenendo la tutela del lavoratore nei controlli cosiddetti informatici, cioè quelli attuati attraverso software, istallati sui computer che sono strumento di lavoro; in tutto ciò che ne verifichi la produttività, controllando la navigazione sul web e l’accesso alla posta elettronica. “I programmi informatici che consentono il monitoraggio della posta elettronica e degli accessi Internet sono necessariamente apparecchiature di controllo nel momento in cui, in ragione delle loro caratteristiche, consentono al datore di lavoro di controllare a distanza ed in via continuativa, durante la prestazione, l’attività lavorativa e se la stessa sia svolta in termini di diligenza e di corretto adempimento. Ne consegue che l’installazione di tali programmi è soggetta alla disciplina di cui all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori” (vedi Cassazione n. 4375 del 2010).
Una normativa neanche troppo complessa, e chiara, e con una conseguente giurisprudenza. Una normativa che nel Contratto collettivo dei giornalisti viene integrata: “I sistemi editoriali non devono contenere programmi diretti ad individuare parametri valutativi del rendimento produttivo e tassi di errore del redattore; i programmi del sistema non devono, in ogni caso, essere utilizzati anche ai suddetti fini. Esplicito impegno in tal senso deve essere contenuto nei piani editoriali” (Allegato E, n. 2, lett. c). “L’utilizzazione delle tecnologie non deve essere un mezzo per valutare il rendimento del redattore, la sua produttività e i tassi di errore – specifica poi l’articolo 42 del Contratto dei giornalisti — . Sono pertanto, esclusi programmi diretti ad individuare tali parametri”.
La maggiore tutela dei giornalisti ha un senso legato alla particolarità di una professione che fin dall’accesso delle fonti ha necessità di essere protetta. Una fonte può essere un’amicizia di opportunità su Facebook, che non diventa più l’ambito di evasione che è per molti, ma un modo per raggiungere notizie. Facebook ha sollevato (in parte…) i cronisti dalla fatica – e sofferenza – di chiedere la foto della vittima alla famiglia dopo un fatto di nera, perché in quella vetrina sul web c’è spesso un ampio album di immagini.
Ma il decreto sulla semplificazione delle procedure, al di là delle considerazioni che si stanno facendo in questi giorni (c’è chi sostiene che si tratta di disposizioni in linea con gli altri Stati europei; chi invece parla di mostruosità e di colpo di mano) si inserisce in un terreno che è già da anni di scontro tra editori e giornalisti, rischiando di far precipitare un sistema di difesa che poi alla fine – magari anche solo dopo sentenza – veniva riconosciuto a chi fa il nostro mestiere.
Tempo fa un giornalista fu sanzionato disciplinarmente dopo un controllo sull’uso dei computer: la prova della sua negligenza era infatti che risultava non avesse aperto “i relativi file di lavoro nel sistema editoriale”. Ma c’è stato anche un caso di licenziamento (il giornalista è stato poi reintegrato) anche questo fondato sui controlli del pc del redattore. E ci sono tanti casi di cui non si ha conoscenza perché finiscono sotto silenzio nelle stanze dei direttori del personale.
Ora però – se non si salvano le tutele contrattuali – si rischia che questo decreto cambi completamente lo scenario. Il lavoratore non si illuda più, se usa le email aziendali, di conservare la stessa riservatezza delle email private. E il controllo sull’attività di quelli che sono strumenti di lavoro — pc, tablet, smartphone… — diventa libero per l’azienda, al punto che le relative possibili prove potrebbero dimostrare la giusta causa di licenziamento. Le procedure si semplificano, in questa maniera, ma soprattutto le procedure di licenziamento…Naturalmente, profili di incostituzionalità ce ne sono, ed evidenti.
L’inviolabilità della corrispondenza – ed è solo un esempio — è un principio costituzionale, e questo appare logico che si possa estendere anche se l’indirizzo — in questo caso sul web — sia aziendale. Ma è già meno pacifico che questo principio vada esteso alla tracciabilità della corrispondenza (quante email, quante telefonate e da quali numeri, quanti sms si ricevono). E, soprattutto, alla Corte costituzionale ci si deve arrivare. Ed è necessario che i sindacati, come sta facendo da subito il Sindacato Cronisti Romani, denuncino un grave rischio prossimo venturo per i lavoratori e la loro libertà.
Fabio Morabito
Presidente Sindacato Cronisti Romani