BARI – Derrick de Kerckhove, sociologo ed accademico belga-canadese, è considerato l’erede ed il continuatore dell’opera di Marshall McLuhan, approfondendo in particolare il rapporto fra le “nuove” (un tempo…) tecnologie digitali di comunicazione, il linguaggio e lo sviluppo psicologico; direttore scientifico della rivista italiana “Media Duemila” e docente anche in Atenei italiani, è una delle colonne portanti di quella “scuola di Toronto” dove è nata e si è sviluppata, con Innis, Havelock e McLuhan, la massmediologia.
Dionisio Ciccarese è un collega ed amico di vecchia data, abbiamo lavorato a lungo nella Gazzetta del Mezzogiorno, lui caporedattore centrale, io cronista parlamentare e facente funzione di vice redattore capo della redazione romana, e da circa un decennio lavoriamo insieme nel master in Giornalismo dell’Università degli Studi di Bari Aldo Moro.
In un momento particolarmente critico (ma neanche lontanamente paragonabile a ciò che disastrosamente sarebbe poi avvenuto nel nuovo secolo) ci siamo ritrovati a svolgere un fruttuoso lavoro nel comitato di redazione, la rappresentanza sindacale di base del giornale, alla metà degli anni ’90. Dovevamo cercare di gestire, tra l’altro, anche dal punto di vista dell’organizzazione del lavoro, l’impatto delle “nuove” tecnologie in un giornale che era stato criminalmente tenuto in una sorta di preistoria tecnologica, oltre alla prima ondata di prepensionamenti ed ai primi effetti di una conduzione aziendale dissennata.
Io ero particolarmente attento agli aspetti più strettamente sindacali: rispetto del contratto (facevo parte tra l’altro della commissione contratto dell’allora sindacato unico dei giornalisti), compatibilità fra organici, orari di lavoro, copertura dei servizi e via seguitando, stabilizzazione dei precari e riconoscimento dei diritti acquisiti, reintegrazione degli organici, soprattutto nelle redazioni decentrate.
Dionisio era particolarmente attento alla Rete: dalla posta elettronica (alla cui introduzione nelle postazioni aziendali si opponeva ferocemente, peraltro esorbitando notevolmente dalle sue competenze , il capo del personale) ai possibili sviluppi delle tecnologie digitali, teorizzando una sempre più forte convergenza fra il giornale, quella che era allora la sua televisione, Antenna Sud, che aveva oltretutto sede all’ultimo piano del palazzo della Gazzetta, il magazine settimanale Gazzetta Economia ed una radio che faceva parte dei progetti di espansione del gruppo editoriale, dove c’era ancora una consistente presenza di imprenditori baresi.
A me, ed agli altri, sembrava una tensione utopistica in un certo senso secondaria rispetto ai problemi più urgenti ed a questioni che, non strettamente giornalistiche, influivano fortemente sulla vita del giornale: dalla distribuzione all’orario di chiusura della prima edizione, per fare in tempo a prendere il volo postale per Roma (dove vendevamo all’epoca poco più di 5mila copie), alla redazione delle locandine provincia per provincia. Tutti temi molto importanti, come fondamentale era la questione degli organici, e strategica quella dei diritti contrattuali e di legge da difendere. Ma la questione delle tecnologie si sarebbe rivelata quella nodale.
Nel cdr eravamo in sei: io rappresentavo la romana; un professionista rappresentava le numerose redazioni decentrate; un pubblicista rappresentava i pubblicisti e i collaboratori; fra i tre giornalisti eletti congiuntamente da tutti i professionisti c’era Dionisio. Avevamo interessi settoriali differenti, esigenza da tutelare, e anche visioni non sempre coincidenti sull’azione sindacale; ma siccome avevamo una intesa forte ed un progetto unitario sostenevamo anche la visione di Dionisio. Con un successo purtroppo limitato.
Non solo. Semplificando molto, mentre io (e gli altri quattro) consideravamo che il successo economico di un giornale avvenisse attraverso la vendita delle notizie, Dionisio era convinto che già allora, alla metà dei Novanta, in realtà i giornali (e gli altri organi di informazione) ricavavano profitti non tanto dalla vendita delle notizie ma dalla vendita dei lettori. Da un punto di vista economico (ma anche massmediologico) aveva ragione lui.
Dionisio avrebbe poi diretto Antenna Sud, riuscendo lì a realizzare un forte adeguamento tecnologico (le postazioni della tv ottennero la posta elettronica molti mesi prima di quelle del giornale) che ne fece – beninteso, insieme con l’ottima qualità della redazione – una tv all’avanguardia. Tutto fu poi travolto dagli scontri interni fra gli azionisti e dall’arrogante incompetenza di un sedicente management, ma questo è un altro discorso.
Non è un caso che Dionisio nel master in Giornalismo, oltre a curare le esercitazioni crossmediali, insista poi sulle questioni nodali dei Big Data, dell’iperconnessione, dello spostamento della percezione al virtuale; ed io mi occupi di storia del giornalismo e delle comunicazioni.
Nel 2017, in occasione del festival Lector in fabula, Ciccarese intervistò de Kerckhove, dopo che il sociologo aveva tenuto una conversazione su “Trasparenza e Big Data”. Ne nacque una feconda interlocuzione, che negli anni del confinamento si è trasformata poi in una collaborazione “a distanza” che ha portato ad un denso libro-intervista, “Siamo uomini o digitali?” (Castelvecchi, 116 pagine, 14 euro), del quale Dionisio è davvero un coautore, non “soltanto” un intervistatore (che poi sul “soltanto” riferito agli intervistatori ci sarebbe anche da discutere).
Il titolo richiama volutamente l’interrogativo di Totò “siamo uomini o caporali?”, che metteva in contrapposizione uno sterminato numero di uomini destinati a subire ed una ristretta cerchia di caporali (Totò si riferiva con amarezza a chiunque, ricevuto un briciolo di “potere”, si ergeva a despota con manie di grandezza, non senza un riferimento tragicomico ai due più celebri caporali della I Guerra Mondiali, l’austriaco Adolf Hitler e l’italiano Benito Mussolini) “che con prepotenze e cattiverie dominano la scena”, scrivono in prefazione i due autori.
Di che cosa si occupa il denso volumetto, indispensabile per chi si occupa di scienze della comunicazione? Del digitale e di quello che ha (già) prodotto e potrebbe produrre: nuovi modi di essere informati, necessità di cambiare i modelli educativi, strategie dei governi che vendono sicurezza dopo aver diffuso la paura, uso indiscriminato degli algoritmi che “governano” le nostre vite non solo commerciali, abitudini personali che si articolano verso nuovi modi di “usare” e interpretare lo spazio e il tempo… e poi la questione delle questioni, fino a quando perlomeno non è arrivata, deflagrante, l’Intelligenza Artificiale, ormai in accelerata, velocissima evoluzione: “le impronte digitali che segnano i percorsi generando i Big Data (il nuovo petrolio per governi e società commerciali)”.
Insomma, le impronte che lasciamo ogni volta che utilizziamo la Rete si accumulano, al di fuori di ogni nostro controllo, e la Rete, vendendole, “ci” vende. In molto più pervasivo e poco avvertito di quanto già facessero i mass media negli anni ’90 quando, col cdr, ci approcciavamo alla questione, che sembrava prevalentemente di marketing ma andava molto oltre.
Già negli anni Dieci, con l’avvento e la rapida diffusione degli smartphone, de Kerckhove parlava dell’ormai ineluttabile creazione di un vero e proprio “inconscio digitale”, ovvero “tutto ciò che si sa su di noi e noi non sappiamo”, generato da una “auscultazione della realtà” che è “anche penetrazione della nostra intimità”. Perché, con enorme potenza, proprio nel campo della comunicazione e del digitale, l’osservazione modifica il fenomeno. Agendo direttamente sul subconscio.
“Essere proprietari e controllori esclusivi dei propri pensieri è una cosa del passato, come la privacy”, ammonisce de Kerckhove. E Ciccarese incalza prospettando il pericolo che una “Industria della coscienza” dei media “se ben orchestrata sia ancora più potente per costruire il consenso di una maggioranza di cittadini disposti a limitazioni e sorveglianze in cambio di un’apparente organizzazione sociale con pace e ordine”; in pratica, una minaccia per la democrazia.
De Kerckhove è stato “accusato” (così come i suoi predecessori, Innis e McLuhan in particolar modo, ma molto più a fondo) di essere un “determinista tecnologico”. Cosa che lui ammette di essere: ma anche il determinismo – spiega – è sempre relativo: “ovviamente, ci sono migliaia di cose che generano e condizionano i nostri comportamenti; però tra queste ce ne sono alcune delle quali noi non siamo affatto coscienti”. “Qui non si tratta soltanto (e già non è poco) – spiega – di osservare il cambiamento della relazione tra l’uomo e gli strumenti del comunicare. È in gioco ben altro: la relazione con il mondo, con la realtà, con l’immagine di sé stessi, con il modo di pensare e con quello di ricordare. Tutto questo è cambiato, ed è enorme”.
I due affrontano, tra l’altro, il tema pregnante della “datacrazia”, il “governo” esercitato da chi possiede e può analizzare i Big Data attraverso gli algoritmi; qualcosa che ha prodotto e sta producendo (l’Intelligenza Artificiale potenzierà ed accelererà, in mancanza di un qualche meccanismo di sorveglianza), ciò che de Kerckhove chiama “dataismo”; una specie di religione, meglio ancora di “possessione”: perché, argomenta il sociologo, “noi possiamo pregare il buon Dio, ma lui risponde di rado. Il dataismo risponde sempre, ogni volta che lo interroghiamo o lo tiriamo in ballo”.
Fondamentale, per preservare la democrazia e la libertà di pensiero, e sfuggire alla dittatura degli algoritmi, è recuperare la lettura: una lettura “scrupolosa”, che va incentivata. E qui entra (entrerebbe) in ballo il sistema di istruzione pubblica. Che anche incentivando la lettura dovrebbe esercitare il ruolo fondamentale di “insegnare a pensare; ribadisco – sottolinea de Kerckhove – pensare, non ricordare. E la prima cosa da fare è quella di educare gli educatori”.
Non certo apocalittici – per resuscitare la distinzione di Umberto Eco – i due autori mettono comunque in guardia dal rischio che l’uomo, da “controllore” delle macchine (e dei software) ne diventi il controllato.
“I Big Data – leggiamo in quarta di copertina – sono le orme che indicano esattamente il nostro modo di agire e pensare. La ricerca di mercato diventa uno strumento obsoleto: i consumatori scrivono sui social dei loro comportamenti, dei loro acquisti, del loro stile di vita, delle loro scelte politiche. Ma quanto siamo sicuri in questa babele di essere davvero padroni dei nostri pensieri?”. Un dubbio esistenziale, ontologico, che va ormai molto oltre il dubbio cartesiano. Perché davvero, come McLuhan aveva già lucidamente intuito, prima di conoscere la Rete e l’Intelligenza Artificiale, se ogni medium è l’estensione di un arto, i media elettronici sono estensioni del nostro sistema nervoso centrale e, come rileva de Kerckhove, sono ormai integrati nel sistema limbico.
Possiamo difenderci, almeno in parte, dalla dittatura dell’algoritmo? Solo attraverso la conoscenza. Questo libro è uno strumento di conoscenza formidabile che non dovrebbe mancare nella cassetta degli attrezzi di chi si occupa di giornalismo e di comunicazione, ma anche di scuola e di istruzione. E che almeno i legislatori più avveduti dovrebbero compulsare. (giornalistitalia.it)
Giuseppe Mazzarino