Dal crac Ccf agli indebiti contributi per l’editoria: “la banca come un bancomat”

Chiesti 11 anni di carcere per Denis Verdini

Denis Verdini

Denis Verdini

FIRENZE – Quarantacinque imputati, di cui 43 persone e 2 società, 70 udienze e oltre 3.600 pagine processuali di impianto accusatorio. Sono alcuni dei numeri del processo per il crac dell’ex Credito Cooperativo Fiorentino (Ccf), la banca che Denis Verdini ha guidato dal 1990 al 2010, fallita nel 2012.
Il senatore di Ala, come quasi tutti gli altri accusati, devono rispondere, a vario titolo, di associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, appropriazione indebita, truffa e irregolarità rispetto alle normative bancarie.
Tra gli imputati anche il collega di partito Massimo Parisi e i costruttori Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei verso le cui società la banca si sarebbe, secondo l’accusa, eccessivamente esposta. Imputati anche membri dei cda della banca e sindaci revisori.
Udienza dopo udienza la pm Giuseppina Mione, che ha coordinato l’inchiesta dei Carabinieri del Ros con il procuratore aggiunto Luca Turco, ha disegnato la rete di rapporti esistente tra il Credito cooperativo fiorentino e i due imprenditori Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei, soci della holding Hbf che controllava decine di società, fra cui l’impresa di costruzioni Btp, la catena di alberghi Una, la Immobiliare Ferrucci, “scrigno” del comparto immobiliare del gruppo.
Secondo l’accusa, la banca avrebbe erogato decine di finanziamenti a società riconducibili a interessi di Riccardo Fusi (già condannato per l’inchiesta sulla “cricca” degli appalti, capitolo Scuola Marescialli di Firenze), Roberto Bartolomei e altri imputati su contratti preliminari basati su operazioni fittizie o comunque viziati da irregolarità di vario tipo.
Un sistema che nel tempo avrebbe favorito una galassia di società – alcune fallite – contribuendo a svuotare il patrimonio del centenario istituto di credito. Nel processo i pm hanno evidenziato anche presunte carenze nei controlli della governance della banca, con mancate verifiche di operazioni quanto meno incaute o comunque estranee alla prassi del sistema creditizio.
Al crac sarebbe stato collegato pure il complesso meccanismo ideato per accedere senza averne diritto – sulla base di una sorta di fatturazione circolare tra le varie società per prestazioni e servizi — ai contributi per l’editoria di alcune testate locali. In questo filone processuale entra infatti la vicenda della bancarotta della Ste (Società Toscana Edizioni), che editava “Il Giornale della Toscana”, pubblicato dal 1998 al 2014 in abbinamento con “Il Giornale”, della società Sette Mari e di altre società “service” collegate tra loro nella “galassia” editoriale e mediatica promossa a Firenze dallo stesso Verdini.
Imputati, oltre a Denis Verdini, alcuni suoi fedelissimi tra cui il parlamentare e collega di partito, Massimo Parisi. Verdini avrebbe percepito, tramite cooperative che la procura di Firenze ritiene fittizie, contributi del Fondo per l’Editoria, istituito presso la presidenza del Consiglio dei Ministri, oltre venti milioni di euro.

LA STORIA

I guai dell’ex Credito cooperativo fiorentino iniziarono nel 2010, con una prima ispezione della Banca d’Italia. La situazione economica dell’istituto era traballante: dopo due anni di amministrazione straordinaria, nel 2012 il tribunale di Firenze ne sentenziò il fallimento. Ma mentre l’attività, a garanzia dei risparmiatori, venne rilevata da Chianti Banca, i pm Luca Turco e Giuseppina Mione aprirono un’inchiesta.
Secondo le ipotesi dei pm, Verdini avrebbe usato la banca come un “bancomat” personale. Le indagini a questo punto si allargarono anche all’altra attività di Verdini: il quotidiano “Il Giornale della Toscana”, dorso regionale de “Il Giornale”, e i settimanali locali Metropoli. A editare questi giornali erano delle cooperative (la Società Toscana Edizioni srl e la Sette Mari scarl) che, sempre secondo le accuse, sarebbero servite a drenare i fondi pubblici. Più di 4 milioni all’anno di contributi vennero ad esse erogati dal Fondo per l’editoria, tra il 2005 e il 2009. Il 15 luglio del 2014, il gup Fabio Frangini dispose il rinvio a giudizio di tutti gli imputati.

LE RICHIESTE

I pubblici ministeri hanno chiesto pene pesanti. Per Verdini, i pm Mione e Turco, hanno chiesto undici anni di condanna. Nove anni richiesti per gli imprenditori Riccardo Fusi e Roberto Bartolomei. Sei anni chiesti per l’ex direttore del Credito cooperativo fiorentino, Piero Italo Biagini.
Sei anni chiesti anche per il parlamentare Massimo Parisi, imputato nel filone che riguarda i finanziamenti ricevuti dai giornali di cui era l’amministratore. Cospicui, infine, anche i risarcimenti chiesti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Monte dei Paschi di Siena. Lo Stato “rivuole” circa 42 milioni per i contributi erogati, comprensivi di interessi.
La Banca senese chiede 48 milioni agli imprenditori Fusi e Bartolomei che beneficiarono di prestiti da un pool di istituti per la ristrutturazione dei debiti delle loro aziende. Verdini ha partecipato a molte udienze e proprio nella giornata in cui è stata chiesta la sua condanna è stato protagonista di un diverbio con i magistrati. Dopo essere stato ripreso dal presidente della giuria, Mario Profeta, il senatore di Ala ha preso la parola in aula e ha chiesto pubblicamente scusa.
“Richieste di condanna smisurate”: le difese hanno rispedito al mittente le accuse della procura di Firenze. Anche con toni decisi: a cominciare dai legali del principale imputato, Denis Verdini. “È stato offeso dai pm, che gli hanno dato del truffatore”, hanno detto nella loro arringa gli avvocati Franco Coppi ed Ester Molinaro, chiedendo l’assoluzione del senatore di Ala sia dalle accuse di bancarotta del Ccf, che per quanto riguarda il filone dei contributi ai giornali di cui Verdini viene ritenuto il “dominus”. Giornali che erano amministrati da un altro imputato “politico”, il deputato di Ala Massimo Parisi, per il quale l’avvocato Francesco Sisto ha cercato di dimostrare l’estraneità alle contestazioni ma soprattutto che le cooperative “fittizie” che editavano i giornali erano invece “vere, davano occupazione e sfornavano un prodotto di qualità fatto con giornalisti regolarmente contrattualizzati”.
Interventi accorati anche quelli degli avvocati Sandro Traversi e Sara Gennai in difesa dell’ex imprenditore della Btp, Riccardo Fusi, e di Gianluca Gambogi e Alice Pucci per dimostrare l’innocenza dell’ex socio di Fusi, Roberto Bartolomei. (agi)

 

 

 

 

 

 

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