COPENAGHEN (Danimarca) – L’ingegnere danese Peter Madsen, 46 anni, continua a dire che non è l’assassino della bella giornalista svedese Kim Wall, 30 anni, salita a bordo del suo sottomarino artigianale per fare un reportage il 10 agosto scorso e ritrovata a pezzi. La Procura di Copenaghen ha annunciato tuttavia questo pomeriggio, dopo 48 ore dal ritrovamento parziale dei resti della donna, la richiesta di incriminazione dell’uomo per omicidio volontario.
L’ingegnere continua a dire che non l’ha mutilata della testa e degli arti buttando tutto a mare, lo ha detto anche dopo il ritrovamento del tronco di Kim, restituito dal mare e riconosciuto come suo dalla comparazione del Dna. Continua a sostenere che le tracce di sangue, trovate nel relitto del suo sommergibile “UC3 Nautilus”, sono i segni di un incidente fatale occorso a Kim, per cui dopo la morte lui l’ha abbandonata integra alle acque della baia di Køge come in un rito dell’antica marineria. E dice, pure, di non avere sabotato il “Nautilus” per affondarlo apposta, ma che è stata un’avaria.
La trasformazione del capo d’accusa da omicidio colposo in quello ben più grave di omicidio volontario è stata annunciata e ponderata a lungo. Ma il fatto è che gli investigatori devono fare piena chiarezza – se mai sarà possibile – su una storia tanto assurda e che forse contiene risvolti inattesi.
C’è dell’altro? Potrebbe. Un “Cold Case”, per esempio. C’è anche quello a vestire di buio questa storia nordica già così nera. La polizia danese, dopo il ritrovamento del corpo mutilato di Kim, ha riaperto il fascicolo di 31 anni fa relativo al caso irrisolto di una turista giapponese, Kazuko Toyonaga. Nell’autunno del 1986, venticinque giorni dopo la sua scomparsa, fu ripescato a Islands Brygge nelle acque di Copenhagen un sacco di plastica contenente un paio di gambe. Alcuni giorni dopo, nel Canale Christianshavn fu ritrovato un torso umano. Ci vollero otto mesi per identificare i resti come quelli della giapponese. Aveva solo 22 anni. Il suo assassino non è stato mai scoperto.
E Madsen? All’epoca aveva appena 15 anni. Questo inatteso approfondimento nel remoto passato motiva la cautela della polizia danese? Siamo ancora ai punti interrogativi.
Bambino difficile, uomo difficile
Chi è Peter Madsen? Chi fosse Kim Wall è stato detto dai media: bella, una brillante carriera da freelance, viaggi per il mondo degni di Chatwin, articoli su storie eccentriche per testate prestigiose. Un grande avvenire purtroppo ormai tutto dietro le spalle.
Ma lui? Bizzarro. Volubile. Geniale. Quello che generalmente si definisce “un personaggio”. Lo era in Danimarca. E oggi lo è di più. Il suo sito web narra le imprese fatte e fattibili di un uomo che voleva costruire in maniera artigianale, grazie a una raccolta fondi, un sommergibile di 38 tonnellate. Come sappiamo, ci era riuscito. Narra di un tipo che vorrebbe lanciare un uomo nello spazio ma non su iniziativa di un governo o di agenzie transnazionali.
Piuttosto, con le sole forze economiche di volenterosi appassionati. Si tratta del progetto Copenaghen Suborbitals, che Madsen ha cofondato poi abbandonato per lanciarne uno tutto suo: il Rocket Madsen Space Lab, con cui programmava lo stesso obiettivo ma nella maniera che da una vita gli era più congeniale. Da solo.
Peter fu solo da sempre a causa di una mal assortita coppia di genitori da cui nasce a Saeby, piccola città costiera nella penisola dello Jutland. Fra madre e padre c’è una differenza di carattere pari a quella anagrafica: lei ha 36 anni meno di lui. Si separano quando Peter ha appena sei anni e viene affidato al papà, uomo autoritario, gestore di una locanda, che lo spaventa e gli fa cullare, al contempo, il sogno di una grande distanza: da lui, dalla terra, dagli altri. “Quando ripenso a mio padre, penso ai bambini, in Germania, che avevano per genitore il comandante di un campo di concentramento”, racconterà Peter al giornalista Thomas Djursing, che tre anni fa gli ha dedicato una biografia.
Il vecchio Madsen, però, è un appassionato di storia militare, di epopee del mare e dell’aria, e trasferisce nel bambino i suoi sogni. Come il personaggio di un romanzo di Giuseppe Culicchia, “Ameni inganni”, Peter trasforma i suoi pomeriggi in una prolungata rêverie di astronavi e modellini, ma nella solitudine condivisa con quel vecchio signore passa all’opera già a 15 anni e fonda la pretenziosa Danish Space Academy, alla quale consegna l’infantile tentativo di assemblare un razzo con pezzi di fortuna. Alla morte del padre, si dedica agli studi di Ingegneria ma a un certo punto li abbandona perché pensa di saperne abbastanza.
Verranno fuori, negli anni successivi, i suoi cento progetti, verrà il programma per fabbricare il sommergibile, verrà il suo laboratorio personale nei locali dismessi di un cantiere navale sull’isola di Refshaleøen a Copenhagen.
Verrà fuori anche il suo ispido tratto caratteriale, che gli renderà ardua qualsiasi relazione umana: Madsen è virtuoso, non beve e non si droga ma ”è arrabbiato con Dio e con gli uomini” racconta il giornalista Djursing. “Il filo conduttore della sua esistenza sono i conflitti. Gli riesce difficile andare d’accordo con gli altri, nutre grandi ambizioni e vuole fare tutto a modo suo”.
“La maledizione del sottomarino sono io”
Peter riesce, d’accordo con un ex architetto della Nasa che si chiama Kristian von Bengtson, a fabbricare due razzi che raggiungono un’altezza di otto chilometri, poi litiga con il socio e riconoscerà pubblicamente le sue colpe su Internet: “Sono perfettamente consapevole del fatto che il mio umore è responsabile della partenza di Kristian e ne sono dispiaciuto”. Succederà di nuovo con il gruppo di venticinque volontari che hanno lavorato alla realizzazione del sottomarino. Dal 2015 resta solo lui, che crede “alla forza della dittatura”, a signoreggiare sulle avventure del “Nautilus”, ma si svolgeranno sempre nel domestico braccio di mare fra Danimarca e Svezia, fino al fatale brevissimo viaggio con Kim Wall.
Lui aveva scritto che una maledizione pesava su quel sommergibile. “Questa maledizione sono io. Non ci sarà mai pace sul ‘Nautilus’ finché io esisterò”. (agi)
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