ROMA – “Ho sempre riflettuto – anche per il ruolo che mi è assegnato – sull’effettivo significato dell’articolo 1 della Costituzione, che pone il Lavoro a fondamento della democrazia repubblicana, da leggere in combinato disposto con il successivo articolo 4, secondo cui “la Repubblica riconosce a tutti cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.
Sfido chiunque a trovare nel nostro ordinamento strumenti che abbiano effettivamente inciso sulle condizioni che dovrebbero rendere il Lavoro un diritto effettivo. Esistono semmai meri enunciati normativi che difficilmente hanno inciso su quelle condizioni, se non addirittura per peggiorarle.
Per comprendere le ragioni della formulazione ambigua adottata nella Carta Costituzionale, bisogna guardare alla battaglia che in Assemblea Costituente si accese attorno al nostro modello di Repubblica, in esito della quale si produsse una formulazione tuttora interpretabile secondo due opinioni: quella di coloro per i quali l’articolo 1 assegna alla categoria del lavoro la funzione di “idea forza”, intendendola cioè come concetto fondamentale che sta alla base di tutta l’architettura costituzionale e l’altra – di segno esattamente contrario – per cui una tale disposizione avrebbe un valore puramente retorico, anche perché una posizione di privilegio per i lavoratori, rispetto a ogni altro cittadino, apparirebbe in contrasto con l’altro principio fondamentale, di eguaglianza, enunciato nel successivo articolo 3.
A quasi settant’anni di distanza dalla scrittura dei principi contenuti nei richiamati articoli, dobbiamo avere il coraggio di ammettere che la seconda opinione ha – purtroppo – avuto prevalenza sulla prima. A ciò dobbiamo aggiungere la posizione servente in cui il legislatore ha relegato il lavoro rispetto agli altri due fattori della produzione – la terra e il capitale – nelle politiche di sviluppo e una giurisprudenza costituzionale che tenta costantemente di screditare ogni argomentazione fondata sul principio lavorista, nonostante la Costituzione abbia dedicato l’intero suo terzo Titolo, afferente i rapporti economici (artt. dal 35 al 47) proprio al lavoro quale fattore primario sul quale sarebbe stata fondata la Repubblica democratica nella quale ci troviamo a vivere.
La situazione economica e finanziaria in cui oggi ci troviamo – anche per effetto della cessione di quote della nostra sovranità alla Commissione Europea – non consente più di utilizzare il lavoro come motore del sistema; né possiamo ritenere concretamente invocabile quanto prescrive l’articolo 46 della Costituzione secondo cui “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende “, visto che anche queste ultime stanno risentendo di una crisi che difficilmente può orientarle verso un sistema economico di tipo “partecipativo” come quello realizzato – ad esempio – in Giappone.
Per ottenere un simile risultato occorrerebbe infatti riconoscere effettivo valore precettivo all’articolo 39 della stessa Costituzione secondo cui “l’organizzazione sindacale è libera”, poiché – per esser tale – ogni sindacato dotato di un minimo di rappresentatività dovrebbe esser legittimato a stipulare contratti collettivi con efficacia “erga omnes”, mentre sappiamo che così non è, visto che proprio l’articolo 39 (ancora in attesa di piena ed effettiva attuazione) e la libertà di organizzazione sindacale – ribadita dagli articoli 12 e 28 della Carta di Lisbona – sono ancora in attesa di produrre i loro effetti, almeno per quello che si riferisce al dispiegamento della forza dei sindacati autonomi, sia nella contrattazione collettiva che negli ambiti partecipativi che da questa scaturiscono.
Tutto ciò avviene nonostante la Corte Costituzionale abbia da tempo ammonito almeno sul contenuto di questa norma, attribuendole un valore fondativo nazionale che “non può essere circoscritto entro i termini angusti di una dichiarazione di libertà organizzativa, ma, nello spirito delle sue disposizioni e nel collegamento con l’articolo 40 della Costituzione si presenta come affermazione integrale della libertà di azione sindacale” (v. Corte Cost. n. 29 del 1960).
La difficoltà di dare piena attuazione a questo principio nasce però non solamente dalla volontà del Legislatore che considera la libertà organizzativa e quella associativa dei sindacati come diritti da porre sullo stesso piano, mentre non lo sono affatto, ma anche da successive pronunzie della stessa Corte che troppo spesso si è solo limitata a constatare come “le libertà di associazione di organizzazione sindacale, di cui agli articoli 18 e 39 Cost., rientrano indubbiamente tra i diritti inviolabili dell’uomo”, senza voler tenere conto del fatto che l’eccessivo valore dato alla “maggior rappresentatività” di un sindacato rispetto ad altri – resi in tal modo “meno uguali degli altri” – genera inevitabilmente una stasi nei passaggi degli iscritti dal primo ad uno dei secondi, andando così a comporre un quadro non molto lontano da quello che, coattivamente, era stato realizzato dal fascismo attraverso la disciplina corporativa del lavoro.
Si realizza in questo modo una distinzione – se non addirittura un contrasto – fra Costituzione vigente e Costituzione vivente che si ritrova in diverse disposizioni legislative, qua e là sparse nel mare magnum dell’ordinamento, distinzione in base alla quale la chiave della legittimazione sindacale è vista, puramente e semplicemente, nella rappresentatività anziché nella rappresentanza: intendendosi la prima come situazione di diritto che sempre deve prevalere sulla seconda, degradata a mera situazione di fatto che può assumere rilievo nella contrattazione collettiva e nei suoi istituti solamente a condizione che non vada a contrastare con gli indicatori che lo stesso legislatore ha stabilito per individuare i maggiori livelli di rappresentatività di un’associazione sindacale rispetto ad un’altra, per poi anche conferirle funzioni pubbliche (certificazioni, assistenza previdenziale e fiscale ecc.) dal cui esercizio altre associazioni dello stesso tipo possono essere – in tutto o in parte – escluse.
Stabilito, dunque, il legame fra le diverse norme costituzionali ancora in attesa di essere attuate da parte del legislatore ordinario, onde finalmente conferire al lavoro – in tutte le sue forme – quel ruolo di motore dell’economia che tutti dicono di auspicare, potrei limitarmi a constatare che l’inerzia di questo settantennio ci ha condotto al disastro economico e sociale oppure affermare, come ritengo giusto fare, che è arrivato il momento di reagire al declino rivendicando la pienezza della nostra sovranità nel voler attuare quel dettato costituzionale che vede nel lavoro e nei lavoratori la base della nostra democrazia”. (giornalistitalia.it)
Francesco Cavallaro
Segretario Generale Cisal
Consigliere nazionale Fnsi