ROMA – “La morte di Stefano Cucchi ha sparigliato molte carte, c’è qualcosa di più importante da fare, che macinare altre doverose sentenze su cenci residui. C’è da rifare luce nel mondo della legge, togliendo ogni opacità e ipocrisia. La vita d’un uomo vale la vita del mondo”. A scriverlo, in un editoriale a firma di Giuseppe Anzani, è Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana.
“Caso Cucchi, un’insostenibile mancanza di giustizia” è il titolo dell’editoriale che compare sul giornale dei vescovi diretto da Marco Tarquinio dopo la sentenza d’assoluzione per i dottori che hanno visitato il ragazzo.
“Stefano Cucchi non è morto per colpa dei medici dell’ospedale Pertini, dice la Corte d’Assise d’appello di Roma in fase di rinvio – ripercorre Anzani nella sua analisi – . Accusati di aver lasciato in abbandono quell’uomo incapace dal povero corpo stremato, condannati in primo grado per omicidio colposo, poi assolti in appello con una formula ricavata dalla «mancanza di certezze sulla causa della morte», rimessi ancora alla sbarra dalla Corte Suprema che aveva cassato la sentenza, imponendo un nuovo processo, escono ora di scena (salvo ennesimo ricorso) i sanitari, i camici bianchi ai quali è affidata la salute degli uomini”.
“Non abbiamo ragioni nostre per dire che questa rinnovata assoluzione è giusta o sbagliata”, continua l’editoriale sull’Avvenire, ma “la morte di Stefano Cucchi resta un grido che chiede ancora perché. Un grido che non si spegne nel segmento terminale delle ipotesi fatte dai periti e dai vari consulenti di parte (tutti di chiara fama, ma così divergenti); ben prima di incrociare responsabilità personali dirette, ora escluse, interroga il senso dell’ingresso in una struttura di ricovero e di terapia, da parte di un uomo in vinculis, infragilito e a rischio di morte, col corpo ferito. Senza che quel «sistema» lo scampi dal morire, pur senza la colpa penale di nessun camice bianco. È questo lo scacco, il fallimento inaccettabile, che la cronaca ha unito alla crudeltà burocratica della solitudine del ragazzo rispetto ai genitori in attesa di permesso, cui fu dato accesso il giorno dell’autopsia. Il riverbero dell’esclusione della colpa dei sanitari rilancia l’immagine del corpo sfinito per le percosse”.
Anzani affronta anche il ruolo delle forze dell’ordine emerso dalle carte processuali. “Gli agenti di polizia penitenziaria mandati a processo sono stati assolti, in primo secondo e terzo grado. Ma le botte ci sono – scrive l’editorialista –, la Cassazione commenta persino la «disarmante sicurezza e semplicità di un carabiniere» che testimonia: «Era chiaro che era stato menato». Quelle botte sono un delitto vergognoso, commesso all’interno degli apparati dello Stato. Di quel delitto nessuno sta rispondendo, e il colpevole non si trova e forse non si troverà. È vero che c’è in corso un’altra inchiesta, riguardo ai carabinieri che ebbero tra le mani Stefano Cucchi dall’arresto in poi. Dico «tra le mani» di proposito, come figura di ciò che l’arresto, il fermo, la cattura fisicamente produce, sul piano del possesso o della padronia di un corpo in ceppi, quando legge e forza si fanno tutt’uno. Da quel momento deve scattare una cautela che ha in sé qualcosa di sacro, una salvaguardia per la dignità umana dell’arrestato, una garanzia per la sua incolumità e sicurezza, una responsabilità dello Stato che lo ha in custodia”.
Una richiesta di verità che viene da una voce autorevole come quella del quotidiano della Cei.
Francesco Cangemi