ROMA – Ogni anno nel giorno in cui la Chiesa ricorda Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, il Papa scrive un Messaggio per la giornata delle comunicazioni. Qui vorrei sinteticamente rispondere a due domande.
Quali sono le intuizioni e le idee portanti del Messaggio di quest’anno? Perché la Chiesa ha scelto Francesco di Sales – conosciuto da pochissimi – come patrono dei giornalisti? Quali potrebbero essere tre parole di senso per la professione?
Il Messaggio ha come fondamento la misericordia e nel cuore del testo è ricordato un bellissimo passaggio del Mercante di Venezia di Shakespeare: «La misericordia non è un obbligo. Scende dal cielo come il refrigerio della pioggia sulla terra. È una doppia benedizione: benedice chi la dà e chi la riceve».
Per il Papa: “Siamo chiamati a comunicare da figli di Dio con tutti, senza esclusione”. Insomma, comunicare con tutti, senza esclusione. Anzi, la comunicazione o è inclusiva o no è. Da qui parte il Messaggio che declina la comunicazione fondata sulla misericordia secondo una dimensione interna ed esterna al comunicatore.
COMUNICARE È COMUNICARSI
Comunicare è impegnarsi per costruire spazi condivisi e bene comune attraverso l’ascolto, il rispetto, la cura delle parole, il gettare ponti, il guarire ferite, ma anche cercare la riconciliazione e la pace e accogliere l’altro, non cercare di prevaricarlo, rendere umana e abitabile la casa che è la società.
Riguardo al web in particolare, il Papa dice che in rete si costruisce la cittadinanza.
“Anche e-mail, sms, reti sociali, chat possono essere forme di comunicazione pienamente umane. (…) Le reti sociali sono capaci di favorire le relazioni e di promuovere il bene della società ma possono anche condurre ad un’ulteriore polarizzazione e divisione tra le persone e i gruppi. L’ambiente digitale è una piazza, un luogo di incontro, dove si può accarezzare o ferire, avere una discussione proficua o un linciaggio morale”
APPELLO ALLE ISTITUZIONI: VIGILANTI SU LIBERTÀ DI PENSIERO
Poi il Papa chiede alle istituzioni di essere vigilanti su come si forma l’opinione pubblica, sul rispetto della libertà di pensiero e su chi ha sbagliato.
“È auspicabile che anche il linguaggio della politica e della diplomazia si lasci ispirare dalla misericordia, che nulla dà mai per perduto. Faccio appello soprattutto a quanti hanno responsabilità istituzionali, politiche e nel formare l’opinione pubblica, affinché siano sempre vigilanti sul modo di esprimersi nei riguardi di chi pensa o agisce diversamente, e anche di chi può avere sbagliato”.
“Ci vuole invece coraggio per orientare le persone verso processi di riconciliazione, ed è proprio tale audacia positiva e creativa che offre vere soluzioni ad antichi conflitti e l’opportunità di realizzare una pace duratura”.
ASCOLTARE COME CUSTODI DELLA PAROLA
C’è poi un passaggio importante: “Ascoltare non è mai facile. A volte è più comodo fingersi sordi. Ascoltare significa prestare attenzione, avere desiderio di comprendere, di dare valore, rispettare, custodire la parola altrui. Nell’ascolto si consuma una sorta di martirio(…)”. Dario Viganò durante la presentazione del Messaggio ha ricordato due meravigliose citazioni sul silenzio.
«L’uomo contemporaneo è diventato – dice Max Picard nel testo Il mondo del silenzio (Edizioni Di Comunità 1950) – un’appendice del rumore, uno spazio del rumore. Si va atrofizzando, in un contesto di parole gridate, parlate e non più parlanti, la nostra capacità di ascolto che viene ridotta ai livelli minimali. Un disamore per l’ascolto produce un linguaggio disoccupato il cui tratto è la disattenzione.
L’ascolto è un atto necessario allo svolgersi della comunicazione, e prevede anzitutto il silenzio, condizione indispensabile per ricevere ogni parola pronunciata e coglierne il significato. Di conseguenza, più un individuo sarà capace di stare in silenzio, maggiore sarà il valore delle parole che proferirà, essendo esse il frutto di una meditazione. Il silenzio è una condizione tanto indispensabile alla comunicazione, che Erving Goffman (Il comportamento in pubblico, Einaudi 1963) nella sua teoria dell’interazione sociale postula l’organizzazione di ogni situazione dialogica in «turni di parola».
Come ci ricorda il filosofo del linguaggio Ugo Volli (Apologia del silenzio imperfetto, Feltrinelli 1991): «è evidente che in ogni conversazione il diritto alla parola corrisponde simmetricamente a un obbligo di rispettare il proprio turno di silenzio; e in effetti la microsociologia ha rivelato una complessa rete di segnali e transazioni che si svolgono in ogni dialogo per regolare quell’oggetto della comunicazione e insieme del potere che è contenuto sempre nel rapporto tra silenzio, ascolto, parola» (p. 111.)».
Infine il messaggio contiene un appello alla Chiesa, a comunicare senza prevaricare.
È sulla forza e sulla debolezza della parola che il comunicatore e giornalista deve riflettere: questa può far vivere e morire, nascere e rinascere o umiliare e uccidere. La parola – che nasce dall’interno del comunicatore – deve allora avere tre caratteristiche: essere forte perché vera, misericordiosa se vuole essere un ponte, pensata nel silenzio per essere carica di vita.
PERCHÈ FRANCESCO DI SALES È IL PATRONO DEI GIORNALISTI?
Quando si avvicina il 24 gennaio, giorno in cui la Chiesa fa memoria di Francesco di Sales, patrono dei giornalisti e degli scrittori cattolici, la domanda che nasce è sempre la solita: “Come mai è stato scelto proprio questo Santo?”. L’Enciclopedia Garzanti della Letteratura definisce san Francesco così: “Elegante predicatore e prosatore alieno dai toni aspri, abile nell’intrecciare immagini e idee”.
In realtà le ragioni sono molte ma per riscoprirle occorre ancora una volta immergersi nella sua vita e nei suoi scritti.
La vita di Francesco di Sales è stata intensa e breve, vive solo 55 anni (1567-1622). È allievo dei gesuiti a Parigi, mentre a Padova, guidato dal p. Antonio Possevino, completa i suoi studi di utroque iure (è definita così la doppia laurea in diritto canonico e in diritto civile). La sua Savoia sul piano politico apparteneva al Piemonte e in quegli anni regnava anni il Duca Carlo Emanuele I (1580-1630).
C’è un punto che ci accomuna. Vive un passaggio d’epoca come lo stiamo vivendo noi. È per questo che San Francesco di Sales va anzitutto considerato un “uomo ponte”. Davanti ai problemi nuovi che sfidavano la Chiesa e il mondo non ha dato risposte vecchie.
Per lui la controriforma cattolica inizia dal recuperare la propria interiorità per “sentire interiormente” ciò che Dio suggerisce alla vita dell’uomo per renderlo libero. Per far questo scrive (si calcola più di 30.000 lettere), predica (in un contesto calvinista) e parla delle cose di Dio nei colloqui personali.
I contenuti della fede che comunicherà attraverso i “nuovi media” di allora hanno come momento generativo la sua crisi di fede che Francesco vive nell’anno 1587: una notte oscura in cui per sei settimane non mangia, non dorme, piange, si ammala. Ne esce affidandosi a Dio: “io vi amerò, Signore”.
Dall’infanzia agli studi di Parigi e di Padova, dal sacerdozio all’episcopato a Ginevra, dalla missione “rischiosa” in terra protestante all’amicizia spirituale con Giovanna de Chantal, dalle iniziative per fondare un nuovo istituto di vita apostolica al desiderio di ritirarsi in un eremo… emerge un ritratto di un uomo della nostra epoca che ha voluto sanare le fratture religiose e politiche in un’Europa che desiderava trovare la sua pace nella cultura e nella società.
La sua conversione non cessa di stupire anche quanti non credono. Aveva tutto ma gli mancava l’essenziale. Dalla Chiesa è stato dichiarato “dottore dell’amore”. Egli era convinto che nel trattare con gli uomini, inclusi gli eretici, bisogna sempre evitare “l’aceto”, ma usare la dolcezza, la comprensione, la stima, il dialogo serio e sincero.
“Se sbaglio, voglio sbagliare piuttosto per troppa bontà che per troppo rigore”. La vita di Francesco di Sales si può riassumere, attraverso questa pennellata di colore, dove la bontà è la graduazione forte, il rigore e la perseveranza sono i tenui.
La gente lo amava perché si sentiva amata da lui.
La sua forza è stata la capacità di accogliere la sua debolezza. Come prete inizia a vivere una serie di sconfitte. Dal pulpito non è ascoltato così decide di pubblicare dei foglietti volanti, simili a grandi twett del tempo!
Li faceva scivolare sotto gli usci delle case o li affiggeva ai muri. Questo modo di trovare forme nuove di comunicare l’unica Parola di vita convince la Chiesa a mettere sotto la sua protezione la vita dei giornalisti, degli scrittori di quanti diffondono la verità cristiana servendosi dei mezzi di comunicazione sociale … ma anche protettori dei sordomuti.
Non convinse con la minaccia e la paura ma con l’amore e la sua testimonianza, molti ugonotti ritornarono nella Chiesa Cattolica. Guarda ciò che preoccupa la vita interiore con ironia: “È un ottimo segno che il nemico si ostini a bussare alla porta: questo vuol dire che non ha ottenuto quello che voleva”. In più è capace di usare immagini per parlare della grandezza di Dio: “Diciamo così: Dio è il pittore, la nostra fede è la pittura, i colori sono la parola di Dio, il pennello è la Chiesa”.
L’11 dicembre 1622 a Lione dopo una confessione muore per un attacco di apoplessia il 28 dicembre.
È beatificato il 8 gennaio 1662, dopo tre anni dopo è canonizzato (19 aprile 1665) dal pontefice Alessandro VII.
Nel 1877 è proclamato Dottore della Chiesa mentre dal 1923 è patrono dei giornalisti.
Ai giornalisti lascia il suo testamento: “Non è per la grandezza delle nostre azioni che noi piaceremo a Dio, ma per l’amore con cui le compiamo”.
Francesco Occhetta
Assistente nazionale Ucsi