Pierluigi Franz spiega perché la riforma peggiora la vita dei cronisti. Proposta di legge Scr

Carcere per i giornalisti: dalla padella alla brace

Pierluigi Roesler Franz

ROMA – «Rivedere e ricalibrare equamente le sanzioni pecuniarie sostitutive del carcere in materia di diffamazione a mezzo stampa». Pierluigi Roesler Franz, presidente del Sindacato Cronisti Romani mette in guardia dagli entusiasmi suscitati dall’approvazione, in Commissione Giustizia del Senato, in materia di diffamazione a mezzo stampa, del disegno di legge Caliendo n. 812, che al posto del carcere prevede nuove sanzioni pecuniarie, da 5mila a 50mila euro, da versare alla Cassa delle Ammende.
Con una petizione ex art. 50 della Costituzione, ammessa all’Assemblea del Senato e assegnata alla Commissione Giustizia, il Sindacato Cronisti Romani interviene sul ddl n. 812 d’iniziativa del senatore Giacomo Caliendo (Fibp-Udc) chiedendo di rivedere e ricalibrare equamente le sanzioni pecuniarie sostitutive del carcere in materia di diffamazione prima della votazione conclusiva in sede referente preliminare al voto dell’Assemblea di Palazzo Madama.
Per Franz, che aveva inviato la richiesta alla Commissione Giustizia del Senato prima del voto, «sarebbe opportuna una congrua pausa di riflessione perché le sanzioni già votate e quelle da votare appaiono sproporzionate ed eccessive e quindi in aperta violazione sia dell’art. 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sia dell’univoca interpretazione fornita da anni con ripetute decisioni dai Giudici di Strasburgo. Pertanto i giornalisti italiani rischierebbero di cadere “dalla padella nella brace” e la nuova normativa, attesa da svariati decenni, finirebbe per risultare addirittura peggiorativa rispetto a quella attuale che prevede ancora pene detentive.

Giacomo Caliendo

Analogamente appare assolutamente inadatta al risarcimento del danno da diffamazione in sede civile l’applicazione automatica della prescrizione quinquennale di cui all’art. 2947 del codice civile, anziché una prescrizione specifica molto più breve. Vi sono, infine, ancora molte altre questioni aperte e non affrontate dal disegno di legge n. 812 sulle quali il Senato dovrebbe, invece, esprimersi compiutamente senza lasciarle in sospeso».
Con la sua petizione, il Sindacato Cronisti Romani chiede, insomma, di rimeditare a fondo tutte le questioni più controverse e quelle ancora aperte in tema di riforma della diffamazione affinché venga esaminato ogni aspetto di questa delicata questione che investe la libertà di stampa, il diritto di cronaca, nonché la libera e corretta informazione, che é garanzia fondamentale di democrazia, e sanare così in modo equilibrato un vulnus che nel nostro Paese dura ingiustificatamente da troppo tempo e su cui il Parlamento da decenni non é riuscito a legiferare (esattamente un anno fa, il 18 giugno 2019, lo stesso premier Giuseppe Conte si era impegnato a Napoli ad affrontare seriamente l’argomento), nonostante numerosi pubblici appelli e progetti di legge presentati.

Giuseppe Conte

In particolare, dovranno essere attentamente calibrate le misure alternative alla detenzione perché altrimenti i giornalisti cadrebbero “dalla padella nella brace” e la nuova normativa, attesa da svariati decenni, finirebbe per risultare addirittura peggiorativa rispetto a quella attuale che prevede ancora il carcere. Infatti, nella nostra categoria sono già molti i cronisti e i direttori che preferirebbero paradossalmente tenersi ben stretta la normativa attuale che prevede il carcere proprio perché non potrebbero far fronte, come numerosi editori, al pagamento congiunto delle pesanti sanzioni alla Cassa delle Ammende e dell’indennizzo in favore delle persone diffamate, tenendo conto:
1) che molti cronisti anche non più giovani vengono oggi retribuiti come free lance con appena 2/3 euro ad articolo;
2) che i giornalisti a differenza di altri professionisti (come, ad esempio, i medici) non hanno alcuna possibilità di assicurarsi preventivamente presso una qualunque compagnia italiana od estera contro i risarcimenti da diffamazione;
3) che il mondo dell’editoria sta attraversando la più grave crisi della sua storia, iniziata una decina d’anni fa ed aggravata, purtroppo, dall’emergenza Covid-19.

Il duello tra Augusto Pierantoni e Fedele Albanese

Franz ricorda che l’Associazione della Stampa Periodica Italiana fu fondata a Roma dopo il duello a colpi di sciabola avvenuto nella capitale la sera del 16 maggio 1877 proprio per lavare l’onta di un articolo ritenuto sarcastico e diffamatorio. La sfida fu vinta dall’onorevole Augusto Pierantoni (avvocato, deputato radicale per molte legislature e genero dell’allora ministro della Giustizia Pasquale Stanislao Mancini), che, alto come un corazziere, dopo tre attacchi ferì in allungo all’avanbraccio il giornalista e resocontista parlamentare del “Fanfulla” Fedele Albanese. Pochi anni dopo la fine della Prima Guerra Mondiale l’Aspi confluì nell’Associazione Stampa Romana – sindacato unitario dei giornalisti del Lazio che ne ha poi continuato l’opera sino ai giorni nostri.
Sono infatti ben 143 anni che si discute in Italia di diffamazione senza ancora risolvere tutte le varie e complesse problematiche. (giornalistitalia.it)

PERCHÈ LA PEZZA È PEGGIORE DEL BUCO

Il 10 giugno 2020 all’indomani della decisione della Corte costituzionale, il senatore Arnaldo Lomuti, relatore in Commissione del disegno di legge n. 812, presentato dal senatore Giacomo Caliendo, ha rassicurato sui tempi di approvazione annunciando che la proposta di legge per la cancellazione del carcere per i giornalisti potrebbe arrivare alla Camera prima della pausa estiva. Ed ha ribadito che «resta ferma la volontà del Governo e della maggioranza parlamentare di cancellare il carcere per i giornalisti e contrastare le querele bavaglio».

Arnaldo Lomuti

A sua volta la Fnsi ha auspicato che l’iter delle due proposte di legge n. 812 e 835, delle quali sono rispettivamente primi firmatari i senatori Giacomo Caliendo (Forza Italia) e Primo Di Nicola (Movimento 5 Stelle), possa procedere speditamente, accogliendo la sollecitazione della Corte Costituzionale a definire tutta la vicenda entro un anno, cioè entro i primi di giugno 2021.
«L’ordinanza della Consulta – ha affermato il segretario generale della Fnsi Raffaele Lorusso (il quale, però, evidentemente ignorava del tutto gli emendamenti già approvati o già depositati riguardanti il disegno di legge n. 812) – affida una grande responsabilità alle Camere. L’eliminazione della pena detentiva per i giornalisti riconosciuti responsabili del reato di diffamazione è una misura di civiltà, ma non può diventare l’occasione per avviare una resa dei conti con la categoria con l’introduzione di sanzioni pecuniarie elevate o di norme capestro sull’obbligo di rettifica. Uno scenario di questo tipo esporrebbe l’Italia al rischio di censura e di ulteriori condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo, esattamente come il carcere, perché pene pecuniarie sproporzionate hanno lo stesso effetto dissuasivo della pena detentiva sulla libertà di espressione e sul diritto di cronaca.
Per questo la mobilitazione della Fnsi in tutte le sedi proseguirà di pari passo con il dialogo e il confronto serrato avviato da tempo con il governo e a livello parlamentare per giungere alla definizione di un testo che consenta a chi fa informazione di non subire limitazioni e bavagli e ai cittadini di vedere tutelati i loro diritti fondamentali».
Prendendo spunto proprio dalla pronuncia della Corte Costituzionale, nonché dalle condivisibili affermazioni in linea di principio del segretario generale della Fnsi, occorre adeguare il disegno di legge di riforma della diffamazione a mezzo stampa in discussione presso codesta Commissione Giustizia al Senato, come avevano giustamente chiesto cinque mesi fa, il 21 gennaio 2020, in una conferenza stampa promossa a palazzo Madama proprio per fare il punto su quanto prevede la riforma, la Fnsi e Fieg, «insieme per il bene dei lettori e a tutela dei giornalisti e degli editori»
Il presidente della Fieg, Andrea Riffeser Monti, si era detto favorevole all‘eliminazione del carcere, ma aveva dichiarato «di non condividere le novità in tema di rettifica e di responsabilità penale di direttore e vice direttore, come le previsioni in materia di tribunale competente nel caso di pubblicazioni online».

Primo Di Nicola

RAFFRONTO DELLE 3 DIVERSE FATTISPECIE

1 Come si può notare oggi la disciplina sanzionatoria della diffamazione a mezzo stampa attualmente in vigore per fatto determinato prevede in base all’art. 13 della legge 8.2.1948 n. 47 la pena della reclusione da uno a sei anni e multa non inferiore ad euro 258. In pratica al carcere si somma la multa.
2 Il disegno di legge Caliendo n. 812 prevede in caso di diffamazione per fatto determinato falso commesso con il mezzo della stampa, di testate giornalistiche online registrate o della radiotelevisione, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità, si applica la pena della multa da 10.000 euro a 50.000 euro.
3 L’emendamento del relatore Lomuti prevede, invece, in caso di diffamazione per fatto determinato falso commesso con il mezzo della stampa, di testate giornalistiche online registrate o della radiotelevisione, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità, si applica la pena della multa da 15.000 euro a 75.000 euro.

Carlo Verna

Naturalmente queste sanzioni dovranno essere versate alla Cassa delle Ammende (cioè all’Erario) dal giornalista condannato per diffamazione. Ma a queste ingenti somme si aggiungono gli indennizzi da pagare poi in sede civile ai cittadini danneggiati dall’articolo ritenuto diffamatorio.
Ecco perché c’è il rischio che queste ingenti multe possano condizionare la libertà di stampa e possano imbavagliare i giornalisti che sono stimolati a non informare più compiutamente i cittadini proprio per evitare di essere condannati a versare somme rilevantissime.

ABOLIZIONE DEL CARCERE

È questa la principale novità della riforma all’esame del Senato. Ma di sostanziale ha, ormai, ben poco, perché da anni la Cedu di Strasburgo é dalla parte dei giornalisti ed ha ripetutamente ritenuto illegittimo che, tranne casi assolutamente circoscritti, il giornalista che diffama finisca in cella. Poichè le sentenze della Cedu di Strasburgo hanno praticamente valore di legge in Italia, appare quasi impensabile che un giornalista possa oggi essere arrestato per un articolo denigratorio.

ASSURDITA’ DEI DUE DIVERSI TERMINI ESISTENTI

La legge sulla stampa del 1948 impone al cittadino che si ritenga diffamato a mezzo stampa 90 giorni di tempo per presentare alla competente Procura della Repubblica querela nei confronti di un giornalista.
Per intentare causa civile di risarcimento da diffamazione, cioè per l’indennizzo della reputazione, non c’è, invece, al momento alcuna norma specifica che lo preveda. Ma si applica solo per analogia l’art. 2947 del codice civile che fa, appunto, scattare per un illecito civile un termine di prescrizione di 5 anni (o, secondo alcuni, addirittura di 10 anni in caso di diffamazione aggravata). È questa la diretta conseguenza della sentenza della prima sezione civile della Cassazione del 18 ottobre 1984 n. 5259, meglio nota come “decalogo del giornalista” (di cui fui proprio io a dare per primo notizia con uno scoop in prima pagina sul “Corriere della Sera” come apertura del giornale), che ha spalancato le porte al giudizio civile per risarcimento da diffamazione parallelo ed autonomo da quello penale. Da allora le cause civili si sono moltiplicate, azzerando quasi del tutto quelle penali anche perché in caso di assoluzione da una querela il presunto diffamatore si esporrebbe poi ad un possibile processo penale a suo carico per calunnia, mentre se perdesse una causa in sede civile il presunto diffamato pagherebbe solo le spese legali.
La questione dei termini di prescrizione per intentare causa civile doveva essere uno dei pilastri della riforma della diffamazione. Ma purtroppo, così non é.
Nel 2004 durante il governo Berlusconi fu votato solo dal Senato un articolo che prevedeva la prescrizione in sede civile in 1 anno.
Nell’art. 1 del testo votato in modo univoco dalla Camera il 17 ottobre 2013 e dal Senato il 29 ottobre 2014 si prevedeva che: «l’azione civile per il risarcimento del danno alla reputazione si prescrive in 2 anni dalla pubblicazione». Sul punto non é stato presentato alcun emendamento.
Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti in un documento votato all’unanimità il 22 gennaio 2015 aveva, invece, proposto una prescrizione di 1 anno (come aveva già indicato il Senato nel 2004), trattandosi di un tempo più che sufficiente per ottenere la riparazione della propria reputazione.
Anche la Fieg a pag. 5 del suo citato documento depositato al Senato il 9 maggio 2019 ha chiesto che la prescrizione per le cause civili da risarcimento danni da diffamazione scatti dopo 1 anno.

Alberto Balboni

Il 27 maggio scorso, però, la Commissione Giustizia, bocciando la proposta del senatore Caliendo, ha approvato un emendamento dei senatori Alberto Balboni e Luca Ciriani, fissando così ufficialmente per la prima volta una norma specifica che prevede la prescrizione in 5 anni in quanto agganciata all’art. 2947 del codice civile per tutti i casi di illecito civile.
Si pongono a questo punto molti interrogativi:
1) perchè una persona diffamata in base ad una legge in vigore da 72 anni deve presentare querela entro 90 giorni, mentre può, invece, far causa civile entro 5 anni (o addirittura entro 10 anni)?
2) Non é forse assurda una tempistica così diversa? E come si giustificherebbe?
3) E perché si può in concreto persino dilatare il termine di prescrizione di 5 anni (o di 10 anni) per notificare gli atti al giornalista presunto diffamatore se viene tempestivamente notificato l’atto di citazione al solo editore?
4) Non c’é forse da chiedersi se chi resta in silenzio per tanto tempo prima di far causa civile per diffamazione é davvero un presunto diffamato o, invece, un presunto “ricattatore”?

Luca Ciriani

5) Come é tutelato il diritto di difesa, costituzionalmente garantito, del giornalista se il presunto diffamato tarda a intentare una causa civile rimanendo in silenzio per 5 anni? E, in parallelo, come si tutela il diritto di difesa, costituzionalmente garantito, del giornalista se il presunto diffamato presenta denuncia-querela nei 90 giorni, ma la Procura della Repubblica territorialmente competente la tiene inspiegabilmente chiusa per molti anni in un cassetto o in un armadio senza mai notificarla al presunto diffamatore?
6) E come si può risalire a distanza di così tanto tempo alle concrete e reali responsabilità pro-quota dei collaboratori, redattori, capi servizio, capi redattori, direttori e vicedirettori riguardanti un articolo – o addirittura solo un titolo o un occhiello – ritenuto diffamatorio?
7) Un termine lungo di prescrizione per una causa civile di risarcimento danni da diffamazione comporta in molti casi anche un abnorme allungamento dei tempi di conclusione dello stesso giudizio dinanzi alla magistratura italiana. Ne sono prova alcuni casi clamorosi.

Gabriele Canè

Eccone un campionario: l’ex direttore de “La Nazione” di Firenze, Gabriele Cané, é stato assolto dopo 21 anni dalla Corte d’Appello civile di Firenze l’8 settembre 2015, l’ex direttore de “La Stampa”, Marcello Sorgi, é stato assolto a distanza di ben 19 anni dalla pubblicazione di un articolo ritenuto diffamatorio con sentenza della Cassazione civile n. 23647 del 10 ottobre 2017,
Il record spetta comunque al giornalista Roberto Di Meo della redazione di Terni de “La Nazione”, che è stato definitivamente scagionato dalla Cassazione civile addirittura dopo 24 anni dalla pubblicazione di un suo articolo ritenuto diffamatorio con ordinanza n. 25177 dell’11 ottobre 2018. È normale che un giornalista resti sub iudice per così tanto tempo? E come la mettiamo con i tempi del giusto processo regolato dall’art. 111 della Costituzione?
8) Perché allora non si ritorna all’antico, cioè a data anteriore alla sentenza della Cassazione civile n. 5259 del 18 ottobre 1984, prevedendo che solo in caso di condanna penale la parte offesa potrà inoltrare istanza risarcitoria in sede civile? In tal modo verrebbe – almeno sulla carta – rispettato il diritto di difesa del giornalista, sempreché, naturalmente, la magistratura osservi puntualmente la legge! Mi sembra che la bozza di riforma non affronti minimamente questi delicatissimi temi. È un “buco” che va, invece, colmato al più presto.

Roberto Di Meo

MANLEVA DELL’EDITORE E RISCHIO D’IMPRESA

Fino al 1988 vi era un patto non scritto tra tutti i giornalisti, radio, tv e giornali, una sorta di gentleman agreement, in base al quale l’editore si accollava per intero l’onere di una condanna per diffamazione in sede civile. Da allora – e sono trascorsi 32 anni – le cose sono radicalmente cambiate (come detto prima é stato proprio il sottoscritto a fungere per primo da “cavia”) e gli editori hanno cambiato strategia, rivalendosi sempre sugli autori degli articoli soprattutto se essi hanno nel frattempo cambiato azienda o sono andati in pensione o hanno avuto dei diverbi con la proprietà del giornale (molto frequente é il caso dei direttori).
Ma da parte degli editori non si é forse dimenticato il cosiddetto “rischio d’impresa”? Purtroppo questo delicatissimo problema, accennato solo di sfuggita negli ultimi contratti collettivi nazionali di lavoro giornalistico Fieg/Fnsi, ma senza risultati concreti, non é stato minimamente affrontato nella bozza di riforma della diffamazione. Ed é rimasto insoluto anche il problema della ripartizione delle singole responsabilità da parte dei giornalisti coinvolti (redattori, capi servizio, inviati speciali, capi redattori, direttori e vicedirettori) qualora passi troppo tempo prima di venire a conoscenza di una possibile diffamazione.
Eppure c’é in ballo il dovere dei giornalisti di informare e il diritto dei cittadini di disporre di una corretta e completa informazione, perché é di tutta evidenza che per evitare il rischio di una condanna ad un forte indennizzo per diffamazione un giornalista sia tentato dall’ignorare una notizia piuttosto che rischiare di pagare di tasca propria un risarcimento o di vedersi pignorare e sequestrare i suoi conti bancari, la casa o i mobili della sua abitazione.
Non è forse un incentivo notevole a far causa di diffamazione in sede civile la possibilità di ottenere un risarcimento del tutto esentasse? E perché questo privilegio che danneggia gravemente l’erario?
Tra le tante anomalie della diffamazione c’é anche quella che consente a chi vince in tribunale una causa di diffamazione in sede civile di non pagare neppure un euro di tasse. È giusto così? E perché nella bozza di riforma non se ne parla affatto, nonostante la grave crisi economica del nostro Paese anche per l’emergenza Coronavirus-Covid 19?
Perché tanti magistrati fanno causa civile per ottenere un adeguato indennizzo da diffamazione? Hanno forse avuto un taglio del loro stipendio mensile in busta paga o è, invece, rimasto invariato?
Una ventina d’anni fa lo scomparso professor Vincenzo Caianiello, allora presidente della Corte Costituzionale ed ex Ministro della Giustizia nel governo Dini, lanciò la proposta che gli indennizzi da diffamazione ottenuti dai magistrati in sede civile dovessero essere devoluti in beneficienza alle vittime della mafia, della camorra e della ’ndrangheta proprio perché i magistrati non potevano aver subito alcun danno patrimoniale da una diffamazione avendo ricevuto regolarmente lo stipendio dallo Stato. Ebbene questa proposta é rimasta lettera morta. Nel frattempo, però, si sono moltiplicate le cause civili di risarcimenti danni da diffamazione intentate dai magistrati italiani. (giornalistitalia.it)

Pierluigi Roesler Franz

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