TARANTO – Nulla è più inedito della carta stampata, recita un vecchio assioma della professione giornalistica. In particolare, ciò che esce su un quotidiano sembra destinato all’obsolescenza nell’arco massimo di 24 ore. Ma il giornalismo non è fatto “soltanto” di “notizie” che a volte svaporano anche prima di una intera giornata, soppiantate dal flusso ininterrotto non di coscienza ma della breaking news.
Anzi. Il giornalismo – quello vero, praticato dai veri giornalisti – è fatto soprattutto di contesto, analisi, interpretazione, narrazione. E non evapora. Non è giusto, quindi, che resti “inedito” perché pubblicato “soltanto” su fogli di giornale.
Il rischio che correvano le 14 tappe del giro spazio-temporale di Canosa che nel quasi archeologico 1996 l’amico e collega Paolo Pinnelli, su commissione dell’allora direttore Lino Patruno, pubblicò sulla Gazzetta del Mezzogiorno. Gustose tappe, su e giù per la storia trimillenaria e la cronaca, i fatti ed i fatterelli, magari marginali sub specie aeternitatis ma simbolici, della vita di quella “Canaus” resa celebre dalla parlata volutamente storpiata di Lino Banfi, bandiera di canosità che però canosino non è.
Pinnelli li ha presi e li ha rifusi, quei 14 articoli, ne ha fatto 21 stazioni di un agile delizioso libretto, “Canosa si racconta. Fatti, cronache e personaggi della millenaria Storia di Canosa”, appena apparso, con prefazione di Lino Banfi, a cura della Fondazione Archeologica Canosina, in una gradevolissima veste editoriale, arricchita dalle pregevoli illustrazioni di Francesco Persichella, in arte Piskv, architetto e visual artist.
Una storia, romanzata nei ritmi ma rigorosamente aderente ai fatti che ci sono noti ed agli studi scientifici, della “sua” città, che non pretende di sostituirsi ai volumi ed ai saggi degli storici di mestiere (per chi avesse voglia di approfondire, sono citati in un’ampia bibliografia), rigorosi ma troppo spesso così minuziosamente scientifici e tecnici nel linguaggio da risultare aridi; consultabili sì ma non leggibili. Il giornalismo è un’altra professione: parla ad un pubblico vasto, quasi sempre indifferenziato; deve farsi comprendere. Deve divulgare; che è una funzione nobilissima.
Pinnelli ci riesce in pieno. Allenato a redigere, giorno dopo giorno, la storiografia dell’istante, ci restituisce il volto vivo e palpitante dell’antica città, dalle origini mitiche che la vogliono fondazione dell’eroe greco Diomede, di ritorno dalla guerra di Troia, quindi nel XII secolo a.C., ma sorta in realtà nel VII secolo (sempre a.C.), per quanto in una zona dove sono state rinvenute anche tracce preistoriche, ad oggi.
Ci pare di vederlo, il tempietto di VII secolo eretto sulla sponda dell’antico Aufidus, oggi, col nome d’Ofanto, a regime torrentizio, ma in antico fiume addirittura navigabile, che segna il punto di partenza per la città daunia; oggi ne restano poche tracce, ma Pinnelli le rende vivide, come rende vivido il regime dei “principi”, in realtà ricchi mercanti, che ressero la città; che intorno al IV secolo a.C. si grecizza nei costumi, nello spostamento in collina, con l’edificazione di una acropoli, con l’importazione di preziose suppellettili dalla greca Taras, con lo scavo di sempre più vasti, ricchi e decorati ipogei, con corredi funebri sempre più sontuosi, magnifici e preziosi. Fino ad arrivare ad una sepoltura talmente ricca che è conosciuta col nome di Tomba degli Ori, quella della principessa daunia Opaka Sabaleidas, scoperta nel 1928, il cui splendido corredo costituisce una parte di tutto rispetto nell’esposizione dei cosiddetti “Ori di Taranto” nel MArTA, il Museo nazionale archeologico di Taranto. Con scrupolo documentario, il canosino Pinnelli ricorda il rammarico dei canosini per il trasferimento del tesoro a Taranto, nel 1941, per i pericoli della guerra, ma ricorda anche che, rinvenuti a Canosa, quei preziosi oggetti a Taranto quasi certamente erano stati realizzati.
Una sorta di maledizione di Tutankhamon sembrò abbattersi negli anni Venti sullo scopritore e proprietario del terreno dove sorgeva la tomba e sulla sua famiglia. Autenticamente derubato dall’allora direttore del museo provinciale di Bari, che fece una stima ridicola del valore dei reperti per i quali sarebbe stato risarcito, Salvatore d’Urso andò in rovina per pagare gli avvocati che lo rappresentarono in una causa finita con una transazione a perdere. Si ammalò e morì pochi mesi dopo. La vedova, Eugenia, per far fronte alle costose cure per un figlio ammalatosi e poi morto nel giro di pochi anni, dovette svendere ciò che restava dei terreni di famiglia; e dopo la morte del giovane figlio, anche lei si ammalò e morì.
«La tomba della principessa Opaka, la cui localizzazione si era perduta negli anni, è stata poi ritrovata – scrive con rammarico Pinnelli – nel settembre del 1991; pochi anni dopo, nel 1994, è stata di nuovo sotterrata, perché creava intralcio alla viabilità. Un grande sfregio alla Storia, che nessuno riuscì ad impedire, realizzando una viabilità alternativa».
E l’itinerario prosegue, attraverso lo splendore d’epoca romana di Canusium ed il Medio Evo della decadenza, con la fiammata di Boemondo d’Altavilla (più noto come Boemondo da Taranto), uno dei principali comandanti dell’armata cristiana durante la Prima Crociata, conquistatore e Principe di Antiochia, che proprio a Canosa è sepolto, in un mausoleo che riproduce il tempietto eretto dai cristiani a Gerusalemme sul Santo Sepolcro, fino ai giorni nostri. (giornalistitalia.it)
Giuseppe Mazzarino