PARIGI (Francia) – Parigi, Saint-German-des-Prés. Dalle bancarelle lungo Senna spunta la copertina de “L’étranger” di Albert Camus. L’edizione Gallimard del 1970, sobria, elegante, è praticamente irresistibile. La compro, la divoro e scopro che questo libro, pubblicato nel 1942 dal premio Nobel (1957), e da me colpevolmente dimenticato dai tempi dell’università, parla come pochi altri ai nostri tempi confusi.
Intanto perché ciò che condanna Meursault, uomo di origini francesi che vive ad Algeri, prima ancora del delitto, che pure ammette di aver commesso, è la sua diversità. Tutta la vicenda, dalla morte della madre all’uccisione di un arabo sulla spiaggia di Algeri, dagli interrogatori del giudice istruttore al processo, matura nel contesto di una collettiva condanna morale del protagonista, dove il delitto e le circostanze nelle quali è maturato restano sbiadite sullo sfondo. Il punto, anche sotto il profilo giudiziario, non è tanto appurare le circostanze nelle quali è maturato il fatto, quando indagare il profilo morale di Meursault, vero capo di accusa, mai peraltro apertamente dichiarato, alla base della sentenza. “Posso dire che si è parlato molto di me e forse più di me che del mio delitto”, si rammarica l’imputato riferendosi al procuratore e al proprio avvocato.
Meursault viene condannato a morte non tanto perché autore di un omicidio, che lui stesso racconta e ricostruisce in maniera semplice e veritiera, ma principalmente perché percepito come “diverso”, quindi “non comprensibile” e pericoloso agli occhi degli altri che non accettano di spostare il proprio punto di vista codificato.
Oltre al tema attualissimo del diverso e del nostro rapporto con esso, delle nostre paure infondate, il libro contiene un passaggio che è una perla di giornalismo e dei suoi meccanismi. Il processo si svolge a giugno. “Il mio avvocato mi ha assicurato che non durerà più di due o tre giorni”, si consola Meursault. La corte sarà pressata, infatti, da un caso di parricidio ben più importante che si dibatterà nella stessa sessione estiva. Ma una volta trasferito con il cellulare dal carcere a Palazzo di Giustizia, il protagonista si trova faccia a faccia con una folla di spettatori inaspettata. “Sono qui a causa dei giornali”, gli spiega il gendarme che lo accompagna indicando i giornalisti seduti dietro un banco.
Ecco la descrizione della scena vista con gli occhi del protagonista, l’imputato Meursault: “In quel preciso istante ho notato come tutti si rincontrassero, consultandosi e conversando, come all’interno di un club dove si è felici di ritrovarsi tra gente dello stesso mondo. Così mi sono spiegato anche la bizzarra impressione che avevo avuto di essere di troppo, un po’ come un intruso”.
Ma la descrizione più bella dell’inizio del dibattimento arriva quando uno dei giornalisti si presenta all’imputato e prova a spiegargli, quasi scusandosi, la ragione di tanta attenzione per il suo destino. “Sa, noi abbiamo un po’ montato il suo caso. L’estate è la stagione morta per i giornali. E non avevamo che la vostra storia e quella del parricida che valevano qualche cosa”. Ecco spiegati gli inviati speciali da Parigi, ecco spiegato tutto l’interesse per un caso che, altrimenti, avrebbe tirato su qualche titolo sui giornali locali.
Queste poche, semplici frasi illuminano una logica delle coperture giornalistiche. Una stessa notizia può avere la dignità della prima pagina o finire in una breve all’interno del giornale se surclassata da altri avvenimenti ritenuti più importanti. È una selezione “normale” nei giornali: “Fai venti righe in cronaca, oggi abbiamo troppe notizie da pubblicare” è l’equivalente di “scrivi una pagina, monta il caso” in un giorno di “magra”. Tutto normale nel lessico familiare dei giornalisti. Il caso dell’estate, montato come la panna, si ripete inesorabile ogni anno. Ma visto con gli occhi degli altri, di chi sta dall’altra parte, fa tutto un altro effetto. Grazie imputato Meursault per avercelo fatto vedere. (agi)
Marco Pratellesi
Condirettore Agenzia Giornalistica Italia