PORDENONE – A Mario Calabresi oggi piace «il giornalismo del giorno dopo, di una settimana dopo. Tornare sulle storie e capire perché sono successe e che conseguenze hanno. E si può fare in tanti modi, in un podcast, in un documentario, in un libro». Lo dice all’Ansa alla Festa del Libro con gli autori, Pordenonelegge, dove è venuto con il suo nuovo volume “La mattina dopo” (Mondadori, pagine 144, euro 17) dedicato a quel momento cruciale in cui niente è più come prima. Un tema, spiega, che lo affascina «da sempre» e che, premette, «non ha nulla a che vedere con la fine della sua direzione de la Repubblica. Quello è stato uno spunto», spiega il giornalista-scrittore che è stato alla direzione di Repubblica fino a febbraio 2019, dopo aver diretto La Stampa.
«Ho cominciato all’Ansa e per 23 anni la mia vita è stata il ritmo dell’ultima notizia, dei flash d’agenzia», racconta. Ma poi sottolinea che “il ciclo informativo oggi è pieno di ultime notizie e molto meno di approfondimenti e riflessioni”. E non nasconde che «gli è sempre piaciuto di più, come nel suo ultimo libro, indagare i naufragi. Mi hanno sempre molto più affascinato i politici che perdono il potere ed escono senza flash e fotografi e vanno a casa, di quelli che festeggiano sul balcone. Trovo ci sia molta più verità nella difficoltà che nell’esaltazione».
Nel libro, partendo dal proprio vissuto si apre alle esperienze altrui e ricorda come del post 11 settembre non gli interessasse «andare alle Torri Gemelle, ma vedere le conseguenze di quello che era successo. Che cosa succede dopo? È un tema che mi girava nella testa. Non pensavo che potesse essere anche autobiografico, ma quando ho trovato il tempo per scriverlo coincideva con la mia mattina dopo e quindi ho pensato che valesse la pena utilizzarla per fare questi viaggi». E ci tiene a dire: «non c’è nessun vittimismo. Finire la direzione di un giornale è una cosa che ci sta. Tutti i direttori dei giornali dal momento in cui entrano prendono il posto di qualcun altro e quindi sanno che ad un certo punto toccherà a loro. Non importa che cosa ti accade, le mattine dopo delle persone possono essere tantissime e non esiste una scala del dolore».
Poi racconta: «Carlo De Benedetti aveva lasciato la proprietà del gruppo editoriale ai figli prima che io diventassi direttore. Formalmente non è mai stato il mio editore. Il mio è stato sempre un rapporto con i figli. Con il padre c’era un rapporto ma lontano, distante. Non ci sono molti retroscena».
«Quello che è successo – spiega Calabresi – è figlio di una diversa visione che io avevo sul tono del giornale. Io ho un’idea di giornale che non alza la voce e invece loro lo volevano così, tant’è che lo slogan del nuovo giornale è “Repubblica alza la voce” per distinguersi da quello che facevo io. Non do un giudizio di quello che è venuto dopo. Ho grande stima di Carlo Verdelli, lo conosco, gli voglio bene, però abbiamo due modi di fare il giornale diversi. A me piaceva fare un giornale in cui non si grida. Argomentare mi sta più a cuore. Su questo avevo una divergenza con i figli di Carlo e la avevo anche perché amo la carta, ma penso che il futuro non sia della carta e insistevo perché gli investimenti andassero tutti sul digitale. E poi ho fatto una cosa che non so se tutti i direttori farebbero. Quando ci fu la storia della telefonata di Carlo De Benedetti a Renzi sulle banche che provocò una polemica, scrissi un editoriale molto duro con l’ingegnere in cui contestavo questo e dicevo che aveva fatto un danno a Repubblica. Non sono cose che non lasciano un segno però uno le fa. Per me essere per bene e gentili è una forza per lui è una debolezza. Siamo fatti diversi».
Nel viaggio compiuto in questo libro, anche attraverso le storie di altre persone, come Daniela che in un incidente ha perso le gambe o Gemma che ha perso il marito, Calabresi ha capito che «quanto più e prima riesci a non vivere nel rimpianto, sei capace di immaginare che una vita possa esserci». In fondo “La mattina dopo” chiude il ciclo aperto con “Spingendo la notte più in là” che Calabresi pensava fosse già chiuso.
«Non volevo mettere mia madre e quella storia che riguarda la morte di mio padre, però l’ho messo perché la mia prima grande mattina dopo è stata quella in cui è morto mio padre, quasi 50 anni fa».
Raccontare delle sconfitte, delle difficoltà che tutti abbiamo ha provocato una reazione positiva, a pochi giorni dall’uscita del libro: «nella cultura americana è previsto il fallimento, da noi è uno stigma sociale. Invece dobbiamo riscoprire che è possibile fallire e ripartire. Bisogna ridare partito alla gentilezza», dice Calabresi. E rivela che da bambino ha imparato che si «può non restare prigionieri delle tragedie», che è un piacere «dedicare più tempo alle persone». Sorride e cita Gabriel Garzia Marquez nel giorno dei suoi 80 anni: «La cosa più importante è avere delle persone che ti vogliono bene». (ansa)
Grande stima e grande rispetto per Mario Calabresi. Un giornalista di qualità. Lo conoscevo bene da praticante, quando già mostrava una grande capacità e volontà di conoscere, comprendere; anche all’Ansa si caratterizzava per la determinazione di andare a fondo, di non limitarsi alla corsa affannosa a trasmettere un lancio, magari con una notizia dubbia o incompleta. Tralascio le sue grandi qualità umane, non indifferenti comunque anche nell’esercizio professionale (e consiglio di leggere il suo “Spingendo la notte più in là”, vite di quanti ha subito la morte per terrorismo di familiari). Da direttore l’ho soltanto letto (la mia lunga fase romana e di cronista parlamentare era finita), ed apprezzato, anche quando (raramente) non concordavo con le sue analisi o con le sue posizioni. Proprio perché non amava il giornalismo gridato, urlante, aggressivo e poco riflessivo.