ROMA – “Ci sarà sempre necessità di giornalisti professionisti e sempre ci sarà un giornalismo professionale”. Non ha dubbi Alan Rusbridger, direttore del “Guardian”, il quotidiano inglese Premio Pulitzer 2014 per il “Datagate”, recente testimonial dell’VIII edizione dell’International Journalism Festival di Perugia.
Rusbridger ha definito il mestiere del giornalista “un servizio pubblico” che nell’era digitale – epoca in cui tutti possono e vogliono fornire informazioni – deve sapere confrontarsi e cambiare forma. Tenendo, però, fermo un caposaldo del buon giornalismo: “La notizia deve essere valutata per il suo valore, il suo potere di essere di interesse pubblico. La notizia e chi la scrive condiziona ancora ed ancor di più l’opinione pubblica e questo significa un’enorme responsabilità”.
L’informazione, dunque, rimane di fatto un potere e per essere attendibile, deve essere affidata a chi la fa per mestiere, a chi rischia, a chi nonostante gli ostacoli, ha un unico obiettivo: rendere noto ciò che altri vogliono nascondere e che è di interesse pubblico. Per far sì che questa aspirazione sia realizzata, occorre che chi fa questo lavoro sia in grado di fare da filtro. “Un buon giornalista – sostiene il direttore del Guardian – è colui il quale contrasta il potere all’apice della sua forza”.
“Un canone occidentale, democratico”, come lo ha definito il direttore de “la Repubblica”, Ezio Mauro, mentre il corrispondente da Londra, Enrico Franceschini, ha ricordato che “The Guardian e la Repubblica sono due giornali simili che rispecchiano un modo di intendere la realtà”. Le inchieste scomode delle due testate hanno, infatti, scosso l’opinione pubblica occidentale. Da parte inglese con il caso Nsa, il cosiddetto Datagate, lo scandalo sul programma di controllo e intercettazioni messo in atto dalla National Security Agency americana. Un’inchiesta che è valsa al Guardian il Premio Pulitzer nella categoria “servizio pubblico”. In casa italiana, invece, come non ricordare le famose “dieci domande a Berlusconi. Incoerenze di un caso politico” pubblicate da “la Repubblica” nel 2009, che crearono un vero e proprio caso giornalistico in Italia e in Europa. “Il compito del giornalista oggi – afferma Ezio Mauro – è dare nome alla notizie, significa prendersi la responsabilità di ciò che si pubblica. E’ necessario, dunque, prendere posizione e creare dibattito”.
“Chi oggi intende intraprendere questa carriera, chi vuole raccontare i fatti, deve farlo secondo regole morali ferree. Ci sono Paesi nel mondo – ha ricordato Rusbridger – in cui fare il giornalista può voler dire morire”. O essere minacciati, imbavagliati, fatti fuori. Paesi – è bene sottolinearlo – che, paradossalmente, fanno parte del “civilissimo” blocco occidentale.
In Italia capita, dunque, che se una notizia non piace a qualcuno, un giornale non va in stampa. Non esce. Viene censurato. La storia dell’Ora della Calabria, così come quella di tanti altri colleghi colpiti dalle “regole” di un sistema, spesso, tutt’altro che democratico, ne è l’emblematico esempio. “La ricerca della verità – ricorda spesso Mauro – è una idea ancora vera, potente, reale. Non si può accettare il giornalismo della produzione, quello fatto in batteria, che non verifica i fatti”. I giornalisti sono dei testimoni privilegiati ed hanno il dovere di rintracciare le notizie di valore, mettere in ordine gli elementi e costruire contesti verificati. Un servizio pubblico, insomma. “E la politica nei giornali deve trovare spazio solo quando si trasforma in fatto. Positivo o negativo che sia”.
Rossana Caccavo
Raffaella Salamina