ROMA – Si intitola “Come eravamo” l’ultimo libro del giornalista calabrese Bruno Tucci, storico inviato speciale del Corriere della Sera che, a ottantasette anni compiuti, ha deciso di raccontarsi e di raccontare la trasformazione che il nostro mestiere ha avuto nel tempo.
Cosa è rimasto dell’epopea dei grandi inviati speciali che una volta giravano il mondo senza cellulari e con un semplice taccuino per appunti? In che modo è cambiato il mondo della comunicazione dominata da internet? E soprattutto, chi c’era nelle redazioni degli anni 70/80 e 90 dei grandi giornali italiani? Chi comandava? Chi guidava la macchina del giornale? Quanti amori, e quanti odi anche all’interno di ogni redazione giornalistica?
Troverete tutto questo nel nuovo saggio di Bruno Tucci, “Come eravamo” (Edizioni All Around, 160 pagine, 15 euro), un’intuizione davvero felice che apre una finestra su tutto un mondo che a molti è ancora sconosciuto e che in qualche modo giustifica la festa di ieri sera al Circolo Canottieri Aniene di Roma, dove per la presentazione ufficiale del libro c’era un parterre davvero esclusivo.
Una grande festa corale, dove il vero protagonista della serata, stranamente, non è stato questo suo saggio di ricordi personali, ma i tanti protagonisti che sono, invece, venuti a salutare il vecchio storico inviato del Corriere della Sera, amici di sempre, giornalisti, ex giornalisti, parlamentari, ex uomini di governo, conduttori televisivi e rappresentanti del mondo istituzionale e sindacale italiano, una standing ovation per Bruno che corona nella maniera più bella, e forse anche più meritata, tanti anni di mestiere on the road, di corrispondenze scritte, di analisi e di cronache dai fronti più caldi della terra.
Storia, quella di Bruno Tucci, di un grande cronista, di un inviato speciale come pochi, testimone vero e appassionato del suo tempo, “caratteraccio di merda”, ma sempre presente, mai stanco, incapace di mollare la presa una volta afferrato l’odore acre dello scoop, animale da Olivetti Lettera 22, o meglio ancora di più, animale di redazione come pochi, che nelle ore più impensabili del giorno e della notte chiamava i dimafonisti del giornale perché aveva sempre una notizia da dare. E le sue notizie, erano sempre di prima mano, mai copiate, semmai carpite o rubate a interlocutori privilegiati, e che nessuno ha mai conosciuto per via del riserbo assoluto che ha caratterizzato e segnato la sua vita professionale.
Alla sua festa ieri sera, di volti noti del mondo della comunicazione italiana, ce ne erano davvero tantissimi. Qualche nome soltanto, almeno quelli che abbiamo riconosciuto in sala, in questa location davvero così esclusiva che il presidente del Circolo Aniene, Massimo Fabbricini, ha trasformato in un vero e proprio foyer da teatro, angolo intimo ma assolutamente aperto al grande pubblico presente, quasi un confessionale privato dove si sono dati appuntamento e ritrovati tanti mondi diversi, e tante anime in pena. Guai a non capire e a non sapere che il giornalismo è un mestiere nella maggior parte dei casi per “uomini in pena”, girovaghi, soli, bravi nello scrivere ma incapaci di gestire la propria vita privata, senza punti di riferimento reali, più marinai che non pensatori o intellettuali, e come tali destinati a morire ancora più soli, cullati dal silenzio che ogni cronista ad un certo punto della sua vita si ritrova addosso.
Maurizio Gasparri, Emilio Carelli, Antonio Di Bella, Stefano Folli, Antonio Padellaro, Claudio Cerasa. Ecco alcuni dei tanti amici presenti ieri sera all’Aniene alla festa di Bruno Tucci. Ma poi ancora, Antonello Valentini, Virman Cusenza, Gianmarco Chiocci, direttore dell’agenzia di stampa Andnronos con il papà Francobaldo Chiocci, Massimo Martinelli, direttore del Messaggero, Paolo Corsini, vice direttore della Rai, Fabrizio Roncone, editorialista Corsera, Rodolfo Brancoli, Silvana Mazzocchi, Paolo Graldi, lo stesso padrone di casa Massimo Fabbricini, storica firma sportiva di Corsera, Gabriella Capparelli, affascinante conduttrice del Tg1, Goffredo Buccini, Marco Conti, Luigi Ferrajuolo, Pier Luigi Franz, storico presidente dei Cronisti romani e instancabile giurista di “casa nostra”. Ma c’erano anche Chiara Lico, Maria Teresa Lamberti, Maria Latella, Fiamma Satta, Eugenio Malgeri, Eugenia Nante, Roberto Natale, Alessandra Rauti, Claudio Rizza, figlio anche lui di un grande cronista del passato, Cinzia Romano. Ed ancora Federica Sciarelli: di lei potrei solo raccontarvi del grande amore che le produzioni Rai di “Chi l’ha visto” le manifestano da sempre per questa sua eterna dolcezza e amabilità nel fare questo mestiere.
Altri ancora, certo, spero mi perdonino per non averli citati, ma è solo perché probabilmente non lo ho riconosciuti e mi sono quasi vergognato di chiedere loro chi fossero. Ma la vita va anche in questo modo, non credete?
Bruno Tucci, invece, chi non lo conosce?
Classe 1935, nato in Calabria in un paesino della sibaritide che si chiama Amendolara, giornalista professionista dal 1959, laurea in giurisprudenza alla Sapienza di Roma, incomincia la sua carriera giornalistica assunto al Messaggero come praticante nel 1957. Poi dal 1978 finisce al Corriere della Sera, come inviato speciale in Italia e all’estero, e chiude come vicecaporedattore. Ma ha un record tutto suo legato ai suoi impegni istituzionali, tantissimi, al servizio della grande famiglia dei giornalisti romani. È stato, infatti, presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio per ben 18 anni consecutivi, ma è stato anche a lungo influente consigliere di amministrazione dell’Inpgi, l’Istituto di Previdenza dei Giornalisti Italiani.
Vi chiederete, “Ma che fine ha fatto?”. Dire che è ancora oggi, alla sua età, quella grande miniera di informazioni, e soprattutto quella nave-scuola che ogni giornalista moderno e bravo dovrebbe conoscere, è dire davvero molto poco. Lucido, geniale, spavaldo, irriverente, a tratti anche arrogante e prepotente, padrone di sé sempre e comunque, intuitivo, soprattutto libero come un cavallo allo stato brado, e come tale ingestibile e incontrollabile, e questo da sempre, Bruno Tucci è ancora tutto questo ed altro ancora. “Inviato” sui campi più minati e insidiosi della storia della Repubblica, Bruno era un numero uno in senso assoluto. Ne fanno fede le sue cronache, i suoi reportage, le sue inchieste, sempre un passo davanti agli altri. Aveva una marcia in più degli altri, e questo faceva di lui un icona del giornalismo on the road.
Ieri sera è riuscito anche a commuoversi, lui che da giovane sembrava essere un uomo di ghiaccio: «Quando qualcuno mi chiede: di dove sei, da dove vieni? Rispondo con determinazione per evitare equivoci: sono calabrese con tutti i pregi e i difetti che ciascuno di noi ha. Certo, vivo a Roma da più di 80 anni e qui che ho fatto le scuole dalla prima elementare alla licenza liceale; è qui che mi sono laureato in giurisprudenza all’università La Sapienza, ma il mio cuore è sempre lì, in quel paese dell’Alto Jonio dove trascorro puntualmente tutte le mie vacanze. Il mare è il più bello del mondo (per me), la gente è ospitale e gentile come tutte le nostre genti. Si chiama Amendolara ed è tra Sibari e Metaponto. Lo ripeto sempre ai miei amici. Quando lavorando al Corriere della Sera i miei colleghi mi chiamavano terrone, io gli rispondevo in tutta tranquillità: vedi, il mio paese è tra le più vecchie scuole del mondo. Da noi quando spacchiamo un albero viene fuori un cervello. Li zittivo e non sapevano più che dire. La Calabria è nel mio Dna, i miei genitori erano entrambi della provincia di Cosenza, mio papà del capoluogo, mia mamma di Rocca Imperiale. Ed allora, non sono prove scritte della mia calabresità? Sono orgoglioso di esserlo e quando partivo per la nostra terra a fare un servizio per il mio giornale, mi sentivo rinascere e provavo quel senso di gratitudine difficile a spiegarsi».
Ricordo un dettaglio della mia vita personale legata a lui che forse lui avrà anche dimenticato: ma quando la sera del 23 novembre 1980 a Balvano crollò la volta della Chiesa di Santa Maria Assunta, dove morirono settantasette persone di cui sessantacinque bambini, parliamo del terremoto in Irpinia, quella notte in una tenda della protezione civile trovai lui intento a scrivere il suo pezzo, e lo vidi piangere. Non avrei mai immaginato che il Bruno Tucci che leggevo da anni sulle pagine del Corriere della Sera con la grinta letteraria che solo lui sapeva usare avesse anche un’anima. Quella notte a Balvano capii che non bisogna mai giudicare gli uomini dalle apparenze.
Oggi Bruno torna il romanziere che è sempre stato, e ci regala una chicca straordinaria, che è il racconto appassionato della vita di un giornalista cresciuto tra la gente, vissuto per strada e soprattutto follemente innamorato del suo mestiere. Tucci for ever, dunque.
Carlo Verdelli, attuale direttore di Oggi, che di questo saggio firma la prefazione, e che a quanto pare lo conosce meglio di tutti noi, lo chiama molto confidenzialemente “Don Tucci”.
«“Don Tucci”, il calabrese di Roma poi diventato monsignor Tucci e alla fine, dopo 65 anni di onoratissimo servizio, pure vescovo o cardinale, appartiene alla fortunata schiera di quelli che hanno potuto seguire la strada per la quale erano nati. E in questo suo amarcord, malinconico ma non troppo, riannoda i fili di una storia che ha un passato di poco remoto, ma del tutto dimenticato, un presente tumultuoso e un futuro forse brillantissimo (speriamo!), ma con poca memoria. Seguendo il suo racconto, se ne recupererà un po’, che male non fa, anzi».
Ma il suo libro non è solo il racconto della sua vita personale. È anche uno spaccato antropologico e sociologico di quegli anni e di quel modo di fare informazione. Ricordate la Rivolta dei Boia chi molla a Reggio Calabria? Quando in piazza scese tutto il popolo reggino e diede vita ad una delle rivoluzioni sociali più preoccupanti della storia della Repubblica Italiana? Bene, fu proprio quella “Rivolta” che cambiò la vita professionale di Bruno Tucci.
«La svolta della mia carriera avvenne durante l’estate del 1970 mentre stavo tranquillamente riposando al mare, in Calabria, la terra dei miei genitori. In un pomeriggio caldissimo suonò il telefono (i cellulari non esistevano) e dall’altro capo del filo il redattore capo – era allora Matteo De Monte – mi informò: “Guarda che a Reggio c’è una sommossa di gente che sbraita contro una decisione del governo. Tanto sei a un passo, vedi che cosa succede e poi torna tranquillamente al mare”».
Bruno corre a Reggio Calabria e si sistema insieme a tutti gli altri giornalisti che stavano intanto arrivando da Roma, all’Hotel Excelsior, dove per la prima volta si misura con i giornalisti in quel momento più famosi e più ammirati d’Italia.
«Il fatto è che l’Hotel Excelsior, dove abitavamo, divenne una vera e propria redazione di un giornale. Grandi firme come Giampaolo Pansa, Alfonso Madeo, Marco Nozza, Francobaldo Chiocci, Egidio Sterpa, Luciano Lombardi, insomma l’élite del giornalismo italiano… Non furono giorni facili, la sommossa durò a lungo e qualche volta rischiammo pure di essere malmenati…Sembrava che non dovesse finire mai. Ancora a ottobre del ’72, sempre scrivendo da Reggio, fotografai in questi termini la situazione: Dopo venticinque mesi, la città della “lunga rivolta” sta di nuovo vivendo giorni di estrema tensione».
– Ma cosa spinge un vecchio cronista del passato, famoso come lui, che le ha viste tutte e che in questo mestiere è stato protagonista assoluto di mille corse a ostacoli, a spogliarsi del suo tradizionale riserbo e atteggiamento sempre molto èlitario, a tratti anche borghese, qualche volta persino insopportabile e irritante, per rimettersi in discussione e tentare un confronto impietoso e diretto con le nuove generazioni?
«Il mio proposito – risponde – è quello di dimostrare (spero) come, attraverso i fatti di una lunga carriera, sia cambiata la nostra professione. I cellulari, la tecnologia, internet: quindi la possibilità di informarsi nello spazio di pochi minuti. In meglio? In peggio? Non lo so. Ecco perché ritengo giusto che si faccia un paragone del “come eravamo e come siamo”».
– Deve averla amata molto Bruno Tucci la sua redazione di cronaca al Messaggero…
«Quella redazione rappresentava l’argenteria del giornale. Rammento alcuni nomi: Giancarlo Del Re (che continuò il faticoso lavoro di Ceroni con le “Avventure in città”); Ruggero Guarini che mostrava cultura ogni volta che dialogava con i colleghi;
Giuseppe Columba, detto Nenè, dalla prosa semplice ma efficace; Andrea Barbato che non ho bisogno di dire chi fosse; Alberto Bevilacqua che Zappulli stimava moltissimo per la capacità di scrittura (un po’ meno per scovare notizie), Vittorio Roidi, divenuto poi presidente della Federazione della Stampa; Virgilio Crocco, il collega che aveva sposato la famosissima Mina dopo averla ascoltata in un concerto e averle mandato cinquanta rose; Nanda Calandri, l’unica esponente femminile del giornale circondata (in senso buono) da oltre centoventi redattori».
Ma ci sarebbe da scrivere molto altro ancora. A questo punto vi consiglio di leggerlo il suo libro, lo consiglio soprattutto ai giornalisti più giovani, perché sono certo ne trarranno molto giovamento. (giornalistitalia.it)
Pino Nano