REGGIO CALABRIA – «Ma alla fine che cosa avrei combinato? Ho scritto ciò di cui sono stata testimone. E basta. Sorvolo espressamente sulle altre “gioie” della strada che mi sono scelta. Il veleno nel tè. Gli arresti. Le lettere minatorie. Le minacce via internet e le telefonate in cui mi avvertono che mi faranno fuori. Quisquilie. L’importante è avere l’opportunità di fare qualcosa di necessario. Descrivere la vita, parlare con chi ogni giorno viene a cercarmi in redazione e che non saprebbe a chi altri rivolgersi. Dalle autorità ricevono solo porte in faccia: per l’ideologia al potere, le loro disgrazie non esistono, di conseguenza neanche la storia delle loro sventure può trovare spazio sulle pagine dei giornali. Solo sul nostro, sulla nostra Novaja Gazeta».
Per questo Anna Politkovskaja è stata uccisa ma, soprattutto, per questo Anna Politkovskaja ha vissuto. Per ascoltare e prendere in carico, con la sua coscienza e con la sua penna, le storie di chi non aveva voce. Queste righe furono pubblicate postume il 26 ottobre 2006 sul giornale Sojus Žurnalistov (Unione dei Giornalisti) e l’intero scritto fu poi inserito in apertura nella raccolta “Per questo. Alle radici di una morte annunciata. Articoli 1999-2006” (Adelphi, 2009), realizzata grazie all’opera appassionata dei colleghi di Novaja Gazeta, dei figli Vera e Ilya Politkovsky e della sorella Elena Kudimova.
Mosca, 7 ottobre del 2006: un corpo di donna raggiunto da quattro colpi di pistola, di cui uno alla testa, giace a terra davanti all’ascensore con ciò che resta di una busta della spesa. Anna stava rientrando a casa e, di lì a breve, avrebbe pubblicato un’altra inchiesta accurata e scomoda sul conflitto russo-ceceno.
Nata a New York, figlia due diplomatici sovietici di origine ucraina, Anna Stefanovna Politkovskaja (А́нна Степа́новна Политко́вская), aveva da poco compiuto 48 anni. Aveva iniziato il lavoro di cronista nel 1982 nel giornale Izvestija per poi proseguire, dal 1994 al 1999, come responsabile della Sezione Emergenze/Incidenti diretta da Egor Jakovlev. Dal 1999 era autorevole firma del quotidiano indipendente Novaja Gazeta di Mosca.
Ancora oggi è ricordata per i suoi puntuali reportage dalla Cecenia e per le sue forti denunce circa le gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani in Cecenia perpetrate da esercito e governo russo. Per questo, come da copione, il suo computer fu subito sequestrato: il solo scopo era quello di assicurare la scomparsa di ciò su cui ostinatamente, nonostante gli avvertimenti, continuava a lavorando.
Al cimitero di Troekurov, per il suo funerale, 1000 persone, tra le quali il leader radicale Marco Pannella, e nessun rappresentante del governo russo.
«Una giornalista – aveva ricordato il leader radicale scomparso nel 2016 – che ha spalancato i nostri occhi sulla realtà presente più in generale, non soltanto su quella cecena. Sono venuto qui per una testimonianza. È un dato di fatto che aumentano gli assassinati e gli assassini. Aumenta il potere degli assassini, aumenta il martirio di chi è inerme ma non inerte».
La sua voce era libera, forte come la verità di cui diveniva testimone diretta e irriducibile. Per questo fu necessario fermare per sempre le sue parole. Un delitto ancora oggi senza mandanti; un’impunità intollerabile come le violenze subite dalla popolazione cecena durante il conflitto con la Russia che lei raccontava. Un dramma, vicino nel tempo, da lei descritto con chiarezza, circospezione, responsabilità.
Il suo racconto non tralasciava le dure critiche all’operato del presidente Vladimir Putin e le forti denuncie circa le violazioni dei diritti mani in Cecenia: parole coraggiose perché nessun altro le avrebbe scritte, parole essenziali perché senza di esse non avremmo saputo e senza di esse forse Anna sarebbe ancora viva. Invece lei riteneva che fosse un dovere fare qualcosa di necessario e un’opportunità da cogliere con responsabilità avere la possibilità di farlo.
Le persone si fidavano di lei, le confidavano gli orrori che subivano, si esponevano e rischiavano la vita. Lei non si sottraeva e rischiava con loro, così raccontava i fatti anche se il racconto svelava verità scomode, che altrimenti sarebbero rimaste sepolte e sconosciute, anche se il racconto diventava denuncia pericolosa e fastidiosa.
Le sue parole e i suoi racconti le sono sopravvissuti e hanno dato e danno speranza, hanno portato e portano luce su fatti gravissimi.
Le sue inchieste sono diventate dei libri, ad oggi fonte autorevole relativamente agli accadimenti in quei luoghi caldi e tormentati: “Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di Putin” (Mondadori, 2007), “Un piccolo angolo d’inferno” (Rizzoli, 2008), “La Russia di Putin” (Adelphi, 2005), “Diario russo 2003-2005” (Adelphi, 2007), “Cecenia. il disonore russo” (Fandango Libri, 2009).
Scrivere per lei non era un atto di coraggio o di eroismo ma un atto di vita quotidiana consequenziale a quello di osservare, capire e analizzare. La sua penna era solo un tramite al servizio della verità e dei lettori. Una libertà che ha fatto tremare i potenti, che avrebbe dovuto essere “corretta”, ristretta a qualunque costo. Omissioni, manipolazioni e compiacenze erano ammesse per difendere il sistema, invece i dissidenti e i non allineati non erano tollerati. Per questo lei avrebbe dovuto essere “rieducata” al dovere di ubbidire, di non parlare, di tacere, di smettere di vedere, di capire, di scrivere. Anna, invece, sarebbe rimasta una donna “non rieducabile”, non correggibile. In due parole, non corruttibile.
Ottavia Piccolo, proprio in queste settimane, sta tornando in teatro con il monologo, diretto da Silvano Piccardi, “Donna non rieducabile”, tratto dal volume “Il sangue e la neve” che nel 2007 Stefano Massini ha scritto ispirandosi a brani autobiografici e articoli di Anna.
Minacciata, quasi due volte al giorno, umiliata, malvista dalle istituzioni, ritenuta pazza, convocata in procura dopo ogni inchiesta pubblicata, ma anche autorevole mediatrice, riferimento delle madri dei soldati e dei giovani scomparsi e dalle tante persone che in lei riconoscevano una persona credibile, Anna Politkovskaja fu uccisa perché raccontava senza veli e senza paura, con fermezza e con forza. Raccontava quello che vedeva, anche in occasione di quel primo attentato del 27 dicembre 2001 quando almeno 25 persone morirono a Grozny, la capitale cecena, nelle due esplosioni che in piena notte devastarono il palazzo del governo filorusso in Cecenia. Secondo le prime ricostruzioni si sarebbe trattato di un attentato kamikaze, con due autobombe fatte saltare in aria a poca distanza dal palazzo, a 30 secondi di distanza l’una dall’altra.
Assente forzata nel settembre 2004 alla strage di Beslan per tentato avvelenamento, documentò e mediò in occasione del sequestro dentro il teatro Dubrovka nel 2002. Lei c’era per testimoniare ciò che era più spinoso e scomodo, per raccontare quello che non si poteva accettare, dare voce a coloro che, pur non potendo decidere la storia, la subivano diventando anche coloro che non avrebbero potuto scriverla. Lei raccontava per loro. Testimone, anche lei, di una verità taciuta e gravissima, Anna scriveva e così testimoniava costantemente.
La sua scelta e la sua storia sono oggi emblema della sfida ai governi che proibiscono di parlare, di criticare, di denunciare e di cercare, traccia profonda dell’impegno necessario per realizzare un cambiamento e affermare i valori supremi della Dignità, della Vita, della Libertà, della Giustizia, della Verità. Così lei ha incarnato l’essenza del servizio che la professione giornalistica è chiamata a rendere ad ogni comunità.
Impari, ma non per questo meno necessaria, è sempre la battaglia contro lo strapotere, l’ignoranza, l’indifferenza. Tante le voci spezzate in questa battaglia. I giornalisti e le giornaliste assassinati dalla caduta dell’Unione sovietica fino al 7 ottobre 2006 erano stati 210.
La duecentundicesima vittima fu proprio Anna Politkovskaja. Da qui il titolo del documentario “Anna 211” (2008) di Giovanna Massimetti e Paolo Serbandini, un nome e un numero per un racconto, con immagini e voci, che propone una riflessione sulla libertà di stampa e sul diritto-dovere irrinunciabile di verità connesso alla professione giornalistica. Un documento storico sulla Russa, con testimonianze dei familiari e dei colleghi di Anna. Il Sindacato Giornalisti della Calabria e la Federazione nazionale della stampa collaborarono con il Circolo del cinema “Cesare Zavattini” in occasione della prima proiezione in Calabria, a Reggio nell’ottobre del 2016, in occasione del decennale dell’assassinio di Anna.
A pochi giorni dal terzo anniversario di un altro assassinio perpetrato per far tacere un’altra giornalista, Daphne Caruana Galizia uccisa a Malta il 16 ottobre 2017, ricordare Anna Politkovskaja significa dare voce al ricordo dei tanti che, nell’indifferenza generale, in Russia, e non solo, si sono spesi e si spendono ancora per la Libertà e la Verità e per onorare un professione cardine in ogni Democrazia.
La memoria abbraccia anche Sveta Orljuk, Igor Domnikov, Viktor Popkov, Jurj Scekocikin (presumibilmente ucciso), Anastasia Baburova, uccisa insieme all’avvocato per i diritti umani Stanislav Markelov nel 2009, l’attivista per i diritti umani russa, amica e collega di Anna, Natalia Estemirova, nel 2007. Insignita del primo premio giornalistico istituito alla memoria di Anna Politkovskaja, Natalia fu uccisa proprio in Cecenia dove anche lei era impegnata a denunciare le violazioni dei diritti umani. Qui Malika Umazeva, sindaca di Alchan-Kala, morì tentando di difendere, facendo scudo con il suo coperto malato, il suo villaggio dall’avanzamento dei carri armati russi.
Solo il 2 ottobre scorso, nella Russia contemporanea di Putin, Irina Slavina, direttrice del sito d’informazione indipendente online, chiamato Koza Press, si è data fuoco davanti alla sede della polizia di Nižnij Novgorod, come gesto estremo di protesta. Accusata di essere legata al movimento d’opposizione “Open Russia”, fondato dall’ex oligarca Mikhail Khodorkovski, il suo appartamento era stato perquisito, computer e appunti sequestrati, come anche il telefonino suo e dei suoi cari. Pure la redazione era stata sottoposta a perquisizione dopo un’inchiesta sull’opposizione al presidente russo.
«Vi chiedo di incolpare la Federazione russa per la mia morte», aveva scritto su Facebook prima di suicidarsi. Di induzione al suicidio ha parlato da Berlino, dove è in convalescenza dopo essere stato avvelenato in Russia, Alexei Navalny, oppositore di Putin.
Oggi la Russia resta, infatti, un paese in cui la libertà di informazione e di opinione è ancora esposta ad abusi e restrizioni arbitrarie, in cui attivisti, difensori dei diritti umani, giornalisti rischiano la vita. Ma è anche la Russia dei giovani nati dopo il regime sovietico, come la diciottenne Olga Misik che colleziona denunce e rischia il carcere per le sue proteste pacifiche contro il governo Putin. Ha fatto il giro del mondo la foto che la ritrae a leggere gli articoli sulla libertà di parola e di stampa della Costituzione russa, davanti ai il militari in assetto antisommossa. Lei ostinatamente persiste, non cede alla paura e non rinuncia alla sua resistenza, al sogno di un futuro più libero per il suo Paese.
La storia di Anna è, dunque, anche la storia complessa della sua grande e contraddittoria Russia dalla fine degli anni Ottanta fino all’era Putin, presidente della Federazione russa allora come oggi; è anche il dramma recente, eppure già dimenticato, del conflitto Russo-Ceceno, dei kamikaze ceceni, delle torture e degli stupri dell’esercito russo, dei terroristi che con autobombe si uccidono e uccidono e dei militari russi che assassinano tre uomini ceceni al giorno con la tecnica del “fagotto umano”. È il conflitto in cui la capitale cecena Grozny è costantemente rasa al suolo mentre civili continuano a pagare con la vita il prezzo altissimo di un conflitto in cui si agitano differenze etniche religiose, ma soprattutto le mai sopite spinte indipendentiste dal dominio del Cremlino, acuitesi dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
La Russia di Anna è quella che è parte attiva del mondo globalizzato degli oleodotti e gasdotti – che passano in territorio ceceno – e del conflitto che insanguina l’Ossezia del Nord, nell’agosto 2008. Questo è il suo osservatorio sul mondo. Nella sua visione ampia e lungimirante, ella chiama lucidamente in causa l’Europa e il suo disinteresse verso la dilagante violenza e la pervicace e indisturbata arroganza della Russia verso interi territori.
«In Europa chi risponde della guerra in Europa?», si domandava, raccontando dell’infermiera norvegese Ingeborg Foss, nata a Molde e morta a Starye Atagi in Cecenia, mentre era in missione con la Croce Rossa, e dell’indifferenza verso le tombe di Molde e verso quelle in Cecenia. La madre Sigrid non ha avuto mai riconosciuto il diritto di sapere chi fosse stato ad uccidere la figlia in un’Europa che, nonostante gli orrori del passato, sembrava non imparare la lezione consentendo che potessero ancora esistere territori in cui si potesse fare ciò che si voleva impunemente.
«L’Europa continua a dormire, come se non fosse in terra d’Europa che si combatte da ventitré mesi, ormai. Come se – dalla Cecenia – la Norvegia e il polo Sud fossero altrettanto difficili da raggiungere. Eppure la Cecenia è parte integrante – e a pieno diritto – del Vecchio Continente. (…) Purtroppo sono opinioni comuni, per l’Europeo medio. La Russia è la Russia, un paese nel quale – con il tacito accordo dei leader europei, del Parlamento europeo, del Consiglio d’Europa e dell’Ocse – è consentito di violare leggi che il resto del continente non si sogna nemmeno di non rispettare. (…) L’Europa ha un doppio metro nell’intendere i diritti umani. Uno – distillato, bello, decoroso, civile e comprensibile – è per se stessa. L’altro – non troppo pulito, non troppo distillato – per la Russia, dove la democrazia ha solo un decennio di vita. Per la Cecenia, poi, l’enclave in rivolta, c’è il vuoto, il metro scompare del tutto», scriveva il 16 agosto del 2001.
Oggi la Cecenia sembra avere desistito, cedendo, dopo la violenta e brutale repressione militare di Mosca che Anna aveva sempre denunciato, al regime russo. L’uccisione nel 2013, per mano delle forze militari russe, dell’autoproclamato emiro del Caucaso e capo della resistenza, Doku Umarov, ha inferto un colpo durissimo alle spinte secessioniste, definitivamente represse con gli assassinii nel 2015 dei successori di Umarov, l’emirato Aliaskhab Kebekov e Magomed Suleymanov. Adesso resiste, quasi sotto traccia e senza strategia, un separatismo fortemente islamizzato che per colpire Mosca ha tra gli obiettivi anche il governo ceceno che in sostanza lo rappresenta. L’Atlante delle Guerre e dei Conflitti nel Mondo riferisce di una calma latente sul fronte della ribellione.
«L’episodio più grave è accaduto a marzo 2017, quando sei soldati della Guardia nazionale russa e altrettanti miliziani ceceni sono morti durante un attacco dei ribelli a una base militare governativa».
La Russia e le sue trasformazioni politiche, il cammino difficile verso una democrazia giovane e già avvelenata dal cancro del potere di pochi. Questi prodromi della Russai di oggi e questa la Russia di Anna in cui si è consumato il suo assassinio, a distanza di quattordici anni rimasto ancora senza mandanti. Dopo tre processi, cinque condanne hanno riguardato nel 2014 esecutori e organizzatore. L’esecutore Rustam Makhmudov, lo zio Lom-Ali Gaitukayev, organizzatore, furono condannati all’ergastolo. Assolti nel secondo processo, furono poi nuovamente condannati, rispettivamente a dodici e quattordici anni di carcere, anche gli altri due fratelli Ibragim e Dzhabrail Makhmudov. Condannato a vent’anni di carcere anche l’ex-dirigente della polizia di Mosca, Serghiei Khadzhikurbanov, che aveva partecipato alla preparazione dell’omicidio. Assolto il tenente-colonnello Pavel Ryaguzov, uomo dei servizi russi, e già nel 2013 condannato a 11 anni di reclusione l’ex poliziotto Dmitrij Pavljuchenkov, che aveva confessato di aver pedinato Anna e che aveva collaborato. Nessuna parola sul mandante.
La storia di Anna è particolarmente paradigmatica. Non ci fu altro modo di fermare la sua ricerca di verità, se non ucciderla e negare che si sapesse chi avesse preteso il suo silenzio fino a questo punto. Era in trincea con la sua persona e la sua firma e con lei c’erano il direttore, i colleghi del suo giornale indipendente Novaja Gazeta, le persone che per il suo tramite denunciavano. Sempre al servizio dei fatti, dei lettori e dei testimoni, piuttosto che del potere e dei suoi detentori più o meno occulti.
«Come spostando pietre / geme ogni giuntura! Riconosco / l’amore dal dolore / lungo tutto il corpo», così recita la prima strofa di “Indizi”, lirica di Marina Ivanovna Cvetaeva.
Profetiche parole che come pietre sono capaci di scalfire i muri di omertà. La parole di Anna erano e sono così. Esattamente come le aveva descritte la grande poetessa russa Marina Ivanovna Cvetaeva, alla quale Anna Politkovskaja dedicò nel 1980 la sua tesi in Giornalismo.
Laurea in Giornalismo non in Letteratura. Eppure Anna scelse la poesia, perché essa dota di risonanza interiore la realtà, i fatti. Niente minaccia il pensiero unico dominante più della libertà di un verso, dell’audacia della parola. (giornalistitalia.it)
Anna Foti