ROMA – Sono trascorsi dieci anni da quando Anna Politkovskaja è stata uccisa. Assassinata a colpi di pistola nell’ascensore di casa, a Mosca, il 7 ottobre del 2006. Aveva 48 anni, Anna, ed era una giornalista tenace, come pochi nel suo Paese, a dispetto della delicatezza dei suoi tratti. Scriveva ciò che vedeva e lo faceva su un giornale, la Novaja Gazeta, che non aveva timore di pubblicare inchieste scomode. Come quelle di Anna.
Gli articoli e i servizi firmati da questa giornalista coraggiosa riguardavano la Cecenia, l’occupazione russa, i diritti umani e civili calpestati, le ferite della gente e delle case. Di russi e ceceni. Non faceva distinzioni, la Politkovskaja, quando raccontava. Come ogni buon giornalista dovrebbe fare nel trattare i drammi di cui si fa prima testimone e poi onesto cronista.
«Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. Infatti, una persona può perfino essere uccisa semplicemente per avermi dato una informazione. Non sono la sola a essere in pericolo e ho esempi che lo possono provare».
Parole, queste, che Anna Politkovskaja pronunciò nel 2005 ad una conferenza internazionale sulla libertà di stampa, organizzata a Vienna da Reporter Senza Frontiere.
Ecco che un film (211: Anna) dedicato a questa giornalista senza paura e senza macchia, quasi fosse un antico cavaliere, non può che tradursi in un inno alla verità e al coraggio. Di raccontare, di scrivere, di denunciare.
Un inno, insomma, alla libertà di stampa che in alcuni Paesi, come la Russia, ma non solo, ancora oggi significa sacrificio. Talvolta della stessa vita. Lo sapeva la Politkovskaja e, nonostante la consapevolezza dell’alto, altissimo rischio che correva ogni volta che decideva di non tacere, andava avanti. Fino a che non le hanno tappato per sempre la bocca.
Non era la sola a rischiare questa giornalista tanto minuta e delicata d’aspetto, quanto forte e d’acciaio nella tempra e nella determinazione: erano e sono tanti, purtroppo, i giornalisti che quotidianamente mettono a repentaglio la propria vita pur di continuare a svolgere il proprio lavoro.
Sono ancora tanti, troppi in Russia, dove dal 1993 sono morti o spariti oltre 300 giornalisti, come denuncia e documenta la Ifj, la Federazione Internazionale dei Giornalisti – a cui è affiliata la Federazione Nazionale della Stampa Italiana – che si appella continuamente ai governi affinchè tutelino quanti lavorano nel mondo dell’informazione e non lascino impuniti gli assassini dei giornalisti. Che continuano ad essere uccisi, rapiti, incarcerati in molti Paesi nel mondo.
Basti pensare al Messico, dove dal 2000 ad oggi sono stati assassinati – e in molti casi si tratta di barbari assassinii – oltre 100 giornalisti. O alla più vicina Turchia, che sta pagando per la rabbia e il desiderio di vendetta di Erdogan contro gli autori, o presunti tali, del fallito golpe della scorsa estate: i giornalisti, al pari di avvocati, magistrati, insegnanti, vengono sbattuti in carcere o fatti sparire. Siamo, insomma, all’epurazione.
È chiaro che difendere la libertà di stampa in Paesi come la Turchia e il Messico significa ingaggiare una quotidiana battaglia per la vita, non solo per la professione. In Italia non mancano, di certo, tentativi – più e meno tenaci – di bavagli e censure, né tragici esempi del lavoro del bravo giornalista pagato al prezzo più alto: con la vita. Anche se nel nostro Paese la maggior parte di quanti fanno informazione non ha ragione di temere per la propria vita semplicemente perché lavora, ci sono, però, tanti colleghi, specie nelle regioni del Sud, che devono fare quotidianamente i conti con una realtà che è eufemistico definire difficile.
Giornalisti costretti a vivere sotto scorta, perché hanno osato scrivere di mafia, sia che si chiami ‘ndrangheta, camorra o sacra corona unita. Giornalisti costretti a guardarsi le spalle ogni volta che escono dalla redazione o da casa. Giornalisti tenuti sotto scacco da editori pirata pronti a lasciarli in mezzo alla strada al primo coraggioso bisbiglio. Giornalisti minacciati dallo strumento più in voga del momento, la querela temeraria, allo scopo di metterne a tacere la voce. Giornalisti, insomma, da difendere. Da tutelare. Da proteggere. Talvolta anche da se stessi, quando non hanno contezza di ciò che fanno, anche se spinti da un ragionevole timore – quello di perdere il lavoro o di non trovarlo affatto –, e si prostrano al “bandito” di turno che non si fa scrupoli a rastrellarne la professionalità e, quel che è peggio, la dignità.
Carlo Parisi
Segretario Generale aggiunto Federazione Nazionale Stampa Italiana
Direttore Giornalisti Italia