ROMA – La prima scena-chiave è dentro un’aula di tribunale. Caltanissetta, primavera del 1984. Si celebra il primo processo per la strage di via Federico Pipitone nella quale, l’estate precedente, Cosa Nostra, per mezzo di un’autobomba “alla libanese”, ha eliminato il consigliere istruttore del Tribunale di Palermo, Rocco Chinnici.
Chiamato a testimoniare, il capitano Angiolo Pellegrini, che da tre anni comanda la sezione Anticrimine dei Carabinieri nel capoluogo siciliano, afferma davanti ai giudici che Chinnici, poco prima di essere ucciso, gli aveva confidato che intendeva arrestare i cugini Ignazio e Nino Salvo, i potentissimi esattori di Salemi che da due decenni, grazie anche al ruolo di grandi elettori della Democrazia Cristiana, sono i veri padroni economici della Sicilia.
Prima di Pellegrini, soltanto il commissario della squadra Mobile palermitana Ninni Cassarà, aveva avuto il coraggio nel corso della celebrazione del processo Chinnici, di tirare in ballo i cugini Salvo come possibili mandanti della strage. Altri, compresi alcuni magistrati colleghi di Chinnici nell’Ufficio Istruzione, avevano taciuto e in qualche caso, negato. Per gli ambienti politici ed economici dell’isola è una bufera, da lì a breve i Salvo ma anche l’ex sindaco diccì di Palermo Vito Ciancimino conosceranno l’onta delle manette. Per il capitano Pellegrini invece, quello sarà “l’inizio della fine”. Una lunga e dolorosa discesa verso l’isolamento e il successivo allontanamento forzato da Palermo “per ordini superiori”.
È proprio Angiolo Pellegrini a rievocare queste pagine di storia – e di verità – che hanno segnato profondamente il nostro Paese e la coscienza collettiva. E lo fa, il capitano, nel libro “Noi, gli uomini di Falcone” (Sperling&Kupfer Editore, pagine 232; 16,90 euro) scritto a quattro mani con il giornalista calabrese Francesco Condoluci, che per anni si è occupato in provincia di Reggio Calabria di ‘ndrangheta, inchieste ed economia per il Quotidiano della Calabria e per il Sole-24 Ore “Sud” e oggi continua a scrivere di criminalità in Lombardia per il Sole 24Ore.
L’attentato a Chinnici e il processo che ne segue, sono il cuore del prologo del libro nel quale Pellegrini, per la prima volta dopo trent’anni, ricostruisce i cinque anni passati in Sicilia tra il 1981 e il 1985, come ufficiale di fiducia dei magistrati del pool antimafia di Palermo con in testa Giovanni Falcone. Un periodo esaltante e tragico allo stesso tempo, che lo vede protagonista in prima persona delle indagini sulla seconda guerra di mafia – la carneficina scatenata dai Corleonesi contro le vecchie famiglie palermitane alleate dei Bontate, degli Inzerillo, dei Badalamenti, che tra il 1981 e il 1983 fece oltre mille morti in tutta l’isola – e poi dei principali avvenimenti che hanno segnato la storia recente della Sicilia e dell’intero Paese: l’omicidio Dalla Chiesa (capitolo 5) la strage Chinnici appunto (capitolo 7), l’ascesa di Totò Riina e Binnu Provenzano al vertice di Cosa Nostra (capitoli 2 e 7), il pentimento di Tommaso Buscetta (capitolo 8) e la preparazione del maxiprocesso contro la mafia del 1986, il più grande processo penale mai celebrato nella storia.
Angiolo Pellegrini è l’uomo che, grazie al suo acume e ai suoi metodi investigativi innovativi, prima si conquista la fiducia di Falcone («Dottore, è inutile che carabinieri e polizia accorrano tutti sulla scena del crimine e stiano dietro a ogni singolo fatto di sangue, qui bisogna che qualcuno si occupi di mettere insieme gli elementi investigativi e studiare i collegamenti tra le cosche» dice al giudice nel loro primo colloquio che segnerà l’inizio di un lungo sodalizio professionale, pag. 40) e poi contribuisce in maniera determinante, con i suoi rapporti giudiziari, le sue intuizioni, il suo apporto costante ai magistrati del pool, a costruire i “mattoni” che renderanno possibile la celebrazione del maxiprocesso.
A partire dalla stesura del “rapporto dei 162” (capitolo 4) il dossier attraverso cui, Pellegrini insieme a Cassarà, lavorando per 44 notti nell’infuocata estate del 1982, getteranno una nuova luce sull’organigramma delle cosche mafiose siciliane, dopo un decennio di buio totale sulla “nuova mafia”, quella del business della droga e degli appalti e degli addentellati con la politica, la massoneria e la finanza internazionale.La narrazione è intensa, serrata, avvincente, raccontata per una volta dalla parte di chi si sporcava le mani a fare le indagini, ricca di squarci inediti e inquietanti, come i tentativi di delegittimazione nei confronti di Dalla Chiesa da parte di istituzioni, politica e anche all’interno delle stesse forze armate, dopo la sua nomina a prefetto di Palermo (pag. 89).
Pellegrini racconta del sottobosco fatto di ufficiali dell’Arma infedeli, uomini politici collusi e persino giornalisti “a libro paga” che, in quegli anni, si muove in una Palermo “infetta e infida” completamente soggiogata dai clan “emergenti” che, a suon di kalashnikov e mazzette, hanno conquistato il potere. Una città-mattatoio dove, sullo sfondo di agguati e sparatorie ad ogni angolo delle strade e nell’indifferenza del resto del Paese e del potere centrale, uno sparuto gruppo di uomini – i giudici Falcone e Chinnici con gli altri colleghi del pool, i poliziotti Cassarà e Montana, Pellegrini e la sua “banda” di segugi e sottufficiali, gli altri ufficiali dell’Arma D’Aleo e Honorati – cerca di far fronte agli attacchi della “piovra” e combattere una guerra che “nessuno a Roma vuole vincere davvero”.
Il libro rievoca pagine di storia dimenticate, come le indagini che il capitano Pellegrini – ribattezzato “Billy the Kid” dai suoi uomini e dai suoi nemici sulle strade di Palermo – aveva eseguito sul conto del boss Provenzano nell’autunno del 1983 (capitolo 7) cioè ben 23 anni prima che “l’ultimo dei padrini” venisse catturato, e rende giustizia a vicende discusse, come la gestione del pentimento di Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi che lo stesso Pellegrini andò in Brasile a prendere dopo l’estradizione, raccogliendo, durante il viaggio aereo di rientro, il suo sfogo e la sua decisione di mettersi a disposizione della giustizia (pag. 175).
Le confessioni di Buscetta e l’operazione “Cosa Nostra” che ne scaturirà rappresenteranno tuttavia il canto del cigno del valoroso fronte antimafia palermitano dei primi anni ‘80: dopo gli arresti e le fasi preliminari della storica ordinanza-sentenza di rinvio a giudizio per 841 mafiosi che condurrà al maxiprocesso, per Falcone e i suoi colleghi inizierà la lunga e graduale stagione dell’isolamento, delle critiche, della delegittimazione che culminerà nell’agosto del 1985, con l’uccisione di Montana e con quella di Cassarà che segue la tragica morte in Questura del pescatore Salvatore Marino, sospettato di essere un fiancheggiatore delle cosche (capitolo 10).
Attorno a Pellegrini, i colleghi muoiono o vengono trasferiti: e alla fine anche lui pagherà il conto aperto con Cosa Nostra e i suoi compari dentro il Palazzo. Scampato ad un attentato da parte dei due superkiller Pino Greco “Scarpuzzedda” e Mario Prestifilippo (pag. 216), viene trasferito definitivamente da Palermo ufficialmente per ragioni di sicurezza e non riuscirà a ritornarci per molto tempo. “Chi tocca i Salvo muore” annota Pellegrini con rabbia sulla sua agenda, prima di prendere la nave che lo porterà lontano dalla Sicilia.
Con “Noi, gli uomini di Falcone”, Angiolo Pellegrini ha voluto raccontare questa storia, per rendere omaggio alla figura del giudice ucciso a Capaci nel ’92 al quale è stato legato da una profonda intesa professionale cementata dal lavoro fianco a fianco di quasi 5 anni, dalle missioni compiute in Brasile e in Canada (capitoli 8 e 9) e dalla gestione di Buscetta (molti i particolari inediti e gustosi del magistrato che emergono dalle pagine). Ma questo libro è dedicato anche ai valorosi uomini con i quali Pellegrini ha combattuto questa battaglia epica e che hanno pagato con la vita la loro sfida alla mafia e alle vittime che in tutti questi anni sono sprofondate nell’oblio. Ed è soprattutto un racconto “dal di dentro” degli anni della seconda guerra di mafia a Palermo – illustrato anche da un ricco inserto fotografico contenente immagini esclusive di Giovanni Falcone e dei magistrati e investigatori con cui ha collaborato Pellegrini nonché materiale investigativo tratto dall’archivio personale del protagonista – ma è soprattutto una denuncia vivida e ancora scottante contro chi, nei palazzi del potere e della politica, la guerra contro Cosa Nostra, non l’ha voluta vincere davvero.
“In questo libro – scrive Attilio Bolzoni, a cui si deve la prefazione di ‘Noi, gli uomini di Falcone’ – vengono ricordate le pagine più belle e più brutte della Sicilia degli anni ’80, il romanzo nero di Palermo ricostruito da ‘dentro’, descritto attraverso i protagonisti visti da vicino, i buoni, i cattivi, i pavidi, il branco degli indifferenti. Un resoconto inedito raccontato da uno dei pochi sopravvissuti di quella tragica ed eroica stagione antimafia”.