CINQUEFRONDI (Reggio Calabria) – Spesso mi chiedono cosa significhi vivere con la scorta. E quando rispondo che questa misura di protezione, non voluta né cercata ma imposta per ragioni di sicurezza dello Stato, costituisce una sorta di confessionale, una dimensione intima che ti aiuta a capire molte cose, in tanti storcono il naso o mi chiedono perché la vivo così.
Nella mia vita ho sempre evitato il vittimismo, la retorica becera e l’ipocrisia. Sì, l’esperienza della scorta mi ha cambiato la vita, mi sta servendo a conoscere bene il mio mondo, che nell’ipocrisia e nella retorica spesso ci sguazza. Ho fatto solo il mio dovere, come lo fanno tantissimi colleghi giornalisti, che non si nascondono dietro i condizionali.
Lo ammetto, la scorta la vivo con sofferenza, accentuata davanti ai sorrisi degli stolti o alle provocazioni dei professionisti della superficialità. Io ritengo di aver fatto solo il mio dovere, nulla di più. Ho fatto incazzare qualche ’ndranghetista con il mio lavoro, ma – ripeto – ho fatto solo quello che dovevo, come tanti che ancora credono nel futuro del nostro Paese.
La mia dimensione protetta la vivo come un confessionale, il mio confessionale, nel quale entrano solo in pochi, perché gli altri, tanti altri, non capiscono. Anzi dimenticano presto. E dentro questo mio mondo mi danno l’anima e nascondo le mie paure e la mia rabbia, cercando conforto in quelli che intendono la vita e il lavoro come me.
Dentro questo mio mondo trovo la forza per rincorrere i fantasmi che anneriscono la mia terra e la mia gente. Mi incazzo quando cercano di collocarmi sopra piedistalli di cartone, come una sorta di icona da strumentalizzare alla bisogna. Io sono solo un giornalista al quale è capitato di vivere un periodo della vita sotto scorta, ma non per questo ho definitivamente perso la mia libertà, anzi.
La speranza che continua a sorreggermi è quella di poter continuare a fare qui il mio lavoro, a sporcarmi le mani e a non girarmi dall’altra parte, sopportando per come posso questo periodo della vita e sperando che duri poco.
Voglio tornare ad utilizzare il mio taccuino da giornalista libero: è questo il mio sogno prevalente. Tornare ad essere me stesso e stimolare con il mio lavoro l’interesse di chi oggi non percepisce i pericoli delle nuove mafie, i loro disegni, le loro strategie sempre più raffinare e grigie. Temi che sono ormai spariti da molte agende pubbliche. (ansa)
“Non sono un’icona da strumentalizzare. Voglio tornare ad essere un uomo libero”
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Michele Albanese
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