ROMA – Ho finito, depongo il liuto. Canzoni e canti presto scompaiono. Come ombre leggere che si librano tra il trifoglio purpureo. Ho finito, depongo il liuto. Una volta cantavo come il tordo la mattina canta tra i cespugli rugiardosi, ora sono muto. Sono come uno stanco fanello e nella mia gola non c’è più canto. Ho avuto il mio canto fuggevole. Ho finito, depongo il liuto.
Erano gli anni ’90, inutile precisare la data, e me ne stavo in studio a preparare un maxiprocesso. Era divertente, in verità, perché era un tale caos da far venire meno ogni sacralità processuale e sollecitarci continuamente a trovare soluzioni estemporanee, anche perché non sapevamo precisamente, quasi mai, cosa avremmo dovuto affrontare. Per questo era divertente e soprattutto perché eravamo giovani. Mi avvisano che mi sta cercando al telefono l’Uspi e rispondo subito pensando che fosse Zuccalà. Invece era una voce molto bella e profonda. Gentile.
“Avvocato buongiorno, sono Vittorio Volpi”. Buongiorno Dottor Volpi, piacere di conoscerLa. “Piacere mio. Il Dottor Zuccalà vorrebbe sapere se Lei sia disponibile ad accettare un incarico nell’Istituto per l’Autodisciplina pubblicitaria”. Restai un attimo in silenzio e poi risposi: Beh, se almeno sapessi di che cosa si tratta. Lo sentii ridere. “Beh, non lo chieda a me, è un Istituto molto serio di Milano del quale veramente so poco”. Vabbè, ce lo studieremo. Che ne dice Dottor Volpi? “Sono d’accordo”, fece lui.
Questo è il primo ricordo di Vittorio, che era appena arrivato in Uspi e stava cercando di capire bene l’ambiente, la linea di Zuccalà. La materia no, la conosceva bene perché aveva lavorato in una casa editrice che percepiva anche i contributi statali e ne conosceva i meccanismi. Era contento di lavorare in Uspi, si sentiva. E aveva voglia di rendersi utile, per cui si occupava di tutto.
Gli piaceva comporre il Notiziario Uspi, all’epoca lo faceva praticamente a mano, con la matita e il righello e stava lì che sembrava Mastro Geppetto perché gli piaceva tanto fare l’artigiano. Ma in pratica il giornale non lo scriveva lui. Zuccalà selezionava gli articoli, perché aveva talento ed esperienza per misurarne le parole e gli spazi e Vittorio poi faceva l’impaginazione.
Non faceva neanche le consulenze, Vittorio, perché Zuccalà preferiva rispondere personalmente agli Associati. Quando arrivai io, da consulente legale, mi resi conto che c’era un evidente problema di fiducia e non ho mai pensato che fosse nei confronti di Vittorio, ma che fosse il problema di un’intera generazione nei confronti dei propri figli e ho sempre pensato che questa sfiducia fosse imperdonabile, perché invece Vittorio la meritava e l’avrebbe meritata pienamente negli anni a venire. La meritava perché sapeva tutto dell’editoria. Mi raccontava che fin da piccolo amava leggere la gerenza dei giornali, soprattutto dei periodici, capire da dove provenissero, come fossero strutturati.
Poi, dal ’96, arrivai in Uspi. E io, francamente, me ne infischiavo della fiducia o della sfiducia. Intendiamoci, Zuccalà era un uomo buono che stava attuando, a suo modo, un ricambio generazionale, ma non lo portava mai a compimento, delegando le attività agli uffici. Così ci siamo guardati negli occhi, con Vittorio, e abbiamo cominciato a lavorare nella convinzione che fossimo prima di tutto amici.
Eravamo diversi, lui molto più competente sulla materia e pacato, ma di lui mi piaceva moltissimo il suo disprezzo nei confronti della cialtroneria. Di tutta quella gente che faceva mostra di occuparsi di editoria e di libertà di stampa senza saperne nulla e senza avere una vera intenzione di sviluppo. C’era chi cercava un qualcosa da fare, chi cercava di acchiappare qualche soldo da qualche parte, chi si dava un tono. Mi ricordo un grande direttore della Fieg che in un convegno indicò un politico, che ancora oggi affligge il settore, dicendomi “guarda, quello è proprio un cialtrone”. Ecco. Vittorio non li sopportava. Ma era infinitamente paziente e se ne stava lì a fare la sua parte perché il lavoro era l’unica strada per combattere l’ignoranza.
Poi Zuccalà si ammalò e mi chiese di essere più presente in ufficio, sacrificando la mia professione di avvocato. Non avevo proprio il cuore di dirgli di no, anche perché mi piaceva l’Uspi, ma non avevo ancora tutti gli strumenti per comprendere bene il settore. E allora passavamo i pomeriggi con Vittorio a parlare per ore e lui, con la solita pazienza, mi spiegava tutto quello che avrei dovuto sapere: le tariffe postali, i contributi, tutto. Era più grande di me, era del ’55 e aveva tutti i titoli per potermi insegnare.
Preparava tutti i documenti, me li faceva studiare e firmare, perché tutto doveva essere perfetto e lì ho imparato grande parte di quello che so e ho cominciato a pensare a come si sarebbe potuto sviluppare il settore dell’informazione.
Poi Zuccalà morì ed io fui chiamato a succedergli. Per prima cosa organizzai gli uffici dando massima fiducia prima di tutto a lui. Da quel momento in poi si sarebbe occupato delle consulenze, senza bisogno di passare da me, perché non mi sarei mai potuto aspettare niente di male da Vittorio Volpi. Solo aiuto e competenza.
Su questo non mi sono mai sbagliato. In tutti i lunghi anni in cui abbiamo collaborato Vittorio è stato il punto di riferimento degli Associati, il funzionario competente, gentile, che dava risposte a tutti e aiutava tutti. Io potevo dedicarmi alle linee di sviluppo, ai rapporti con le istituzioni, potevo fare il Segretario Generale sicuro che l’ufficio fosse completamente autosufficiente.
Ma in questi anni il mondo è cambiato tante volte e l’editoria che conoscevamo ai nostri inizi è andata modificandosi profondamente, cambiando quasi tutte le sue caratteristiche originarie.
Non è stato facile per lui accettare questi cambiamenti. Gli sembrava che si stesse generando solo una grande confusione che stessero nascendo giornali che non erano giornali, scritti in una lingua che lui non riconosceva, con criteri che non comprendeva a fondo.
Bisogna tenere conto che Volpi era un purista, parlava e scriveva in un italiano perfetto perché aveva avuto un’educazione perfetta e mai si rassegnava alle ibridazioni anglofone. Ci facevamo anche tante risate su questa storia dei manager che fanno il briefing e che si fanno il lifting. Ma lo sapeva anche lui che non c’era alternativa e che dovevamo studiare i nuovi mezzi con il rispetto che meritavano.
Era superato? Non direi proprio. Una volta arrivò una studentessa serba che doveva fare una tesi di Master e l’affidai a Vittorio per la revisione dell’elaborato. In commissione di Master dissero che non si era mai vista una tesi di una straniera scritta in un italiano così perfetto.
Poi arrivò Sara. Lui all’inizio la guardava come uno strano animale e Sara guardava lui come una specie di fossile di Neanderthal. Era interessante seguire le loro conversazioni. In realtà, se ci penso, avrei dovuto verbalizzarle per i posteri. Quella stava sul pianeta digitale, quell’altro all’incirca nel 1975. E tutti e due facevano l’Uspi. Infatti, non ci fu il rigetto dell’organo nuovo trapiantato ma, lentamente, l’organismo riprese a funzionare molto bene e a dare nuova linfa al settore. L’aveva capito che era cominciato il ricambio generazionale.
In realtà lo accettava con l’aria di chi non lo capiva proprio fino in fondo. Anche perché aveva cominciato a stare male e faceva una grandissima fatica a svolgere il suo lavoro ma senza rinunciare mai. Rappresentava la colonna dell’Uspi, non solo la sua storia, i suoi principi, l’essenza stessa dell’Unione, lui era il fondamento, esattamente come quando nella transizione dopo Zuccalà aveva contribuito a garantire continuità e sviluppo.
E aveva anche un altro compito, quella della formazione. Ogni volta che c’era qualcuno da formare io lo assegnavo a lui perché sapevo che l’avrebbe fatto con lo stesso spirito con cui lo aveva fatto con me, tanti anni prima. Così è stato con Irene che trovava in lui il punto di riferimento per capire l’Uspi nella sua principale caratteristica, cioè quella di essere un’associazione di servizio per gli editori, al di là di ogni inutile e pomposo congresso o manifestazione pubblica. Irene ha preso anche il tesserino dell’Ordine dei Giornalisti a firma di Vittorio, come Direttore responsabile del Notiziario Uspi.
L’Uspi è il suo lavoro quotidiano di dialogo e supporto agli editori. Se non capisci questo non capirai mai l’Uspi. Non avevano e non abbiamo chiacchiere da fare, solo lavoro. Perdonatemi, ma questa è la caratteristica della nostra generazione, con tutto l’amore del mondo nei confronti dei nostri padri che abbiamo stimato e venerato, ma rispetto ai quali noi siamo diversi, forse perché siamo stati chiamati a lavorare in un mondo che non aveva più niente di stabile ma che cambiava e cambia profondamente con una velocità inimmaginabile.
Vogliamo occuparcene? Allora bisogna essere fondamentalmente molto seri e studiare, approfondire tutti i giorni e lavorare e sentire gli editori, i giornalisti. Cercare di capire le loro difficoltà, cercare di dare un senso a tutto quello che sta succedendo.
Ultimamente si era aggravato. Avevo pensato di non infliggergli l’ulteriore sofferenza di venire in ufficio tutti i giorni, perché non ce l’avrebbe fatta. E allora lavorava da casa, faceva gli articoli, le consulenze. E ogni tanto veniva in ufficio, quando c’era bisogno, ma con una fatica insopportabile. Doveva andare in pensione a settembre e gli ho proposto di restare in Uspi anche dopo. L’ho proposto per l’elezione a consigliere nazionale e devo dire che in Assemblea tutti erano contenti di poterlo eleggere, per la stima profondissima che si era meritato da parte di tutti quanti noi.
Era molto, molto sofferente, ma non ho pensato che avesse smesso di soffrire, perché speravo sempre che potesse guarire e continuare a lavorare con me. Invece dopo Mons. Barbierato, che fu padre amorevolissimo soprattutto per me, ora devo salutare mio fratello Vittorio.
Eppure, guardandolo ieri, circondato da sua moglie e dai suoi figli, bellissimi e bravissimi, sono sprofondato nel tempo della mia giovinezza e ho trovato Swinburne: «Dal troppo amore di vivere, dalla speranza e dal timore liberati noi ringraziamo, con breve preghiera gli dèi, quali che siano, che nessuna vita vive per sempre, che i morti non risorgono mai, che anche il più vecchio fiume raggiunge la sicurezza del mare». (giornalistitalia.it)
Francesco Saverio Vetere