ROMA – «Un uomo buono, un pezzo di pane, un galantuomo». Così Pierluigi Roesler Franz, principe dei cronisti italiani, ricorda Mario De Renzis, uno dei più grandi fotoreporter romani di tutti i tempi, morto a Roma all’età di 82 anni. Con le sue fotografie ha raccontato le aree più calde del mondo. Oggi il suo archivio ha un grande valore storico.
Mario De Renzis, per tanti anni vicepresidente collaboratore dell’Associazione Stampa Romana, è stato un veterano della cronaca e del reportage. Per oltre 50 anni ha usato la macchina fotografica per raccontare fatti grandi e piccoli della vita del mondo.
Nato a Capracotta (Isernia) il 15 agosto 1940, giornalista pubblicista iscritto all’Ordine del Lazio dal 2 dicembre 1986, capo del servizio fotografico del quotidiano Il Tempo dal 1956, collaboratore dell’agenzia Ansa, fotoreporter di grande esperienza, Mario De Renzis è stato sui fronti di guerra più caldi del mondo, nella giungla cambogiana con i guerriglieri Khmer, in Libano nell’82 con i soldati italiani, in Albania nei primi anni novanta al seguito dell’operazione Pellicano, in Somalia nella Restore Hope, con il contingente italiano in Kurdistan, nei Balcani, in Iraq, in Kosovo e in Afghanistan.
Un’icona del fotogiornalismo moderno, un uomo che aveva un cuore immenso, che non conosceva cosa fosse la superbia. L’ho conosciuto personalmente e per anni, quando lui era insieme a me consigliere nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, e lo ricordo con commozione per il modo affabile accattivante e avvolgente con cui lui trattava tutti noi, soprattutto i più giovani. Straordinario davvero e ogni qualvolta mi raccontava la sua vita io restavo con lui per ore a sentirlo affascinato dal mondo che lui aveva giurato conosciuto e raccontato.
«Frequentavo le scuole medie a Roma – raccontava Mario De Renzis – e durante l’estate il fotografo che aveva la bottega di fronte casa mia a piazza Quadrata, nei pressi di via Basento, alcune volte mi chiedeva di sostituirlo e di aspettare in negozio eventuali clienti. Un giorno arrivarono nella bottega alcune persone per avvisare il fotografo, assente in quel momento, che a Fiumicino stava per atterrare un campione di nuoto che bisognava assolutamente fotografare. Io, dapprima titubante, accompagnato da mio zio e dalla macchina fotografica, mi precipitai all’aeroporto dove scattai alcune foto all’atleta. Il giorno dopo la sorpresa fu enorme. Le mie foto erano pubblicate sui principali giornali». E quando gli chiedevi cosa fosse stato il suo mestiere sui fronti caldi del mondo, lui sapeva solo sorridere, poi ti raccontava quella che rimarrà nel ricorso di tutti noi la sua favola preferita.
«Lavorare in questo settore, in particolare, significa necessariamente affrontare hic et nunc situazioni anche incresciose e sicuramente di non facile approcci. Proprio tutti questi aspetti hanno umanizzato il mio lavoro di fotografo, ma grazie al contatto immediato con gli avvenimenti e con le persone, ho ricevuto molte soddisfazioni sia dal punto di vista umano che professionale».
Ma intanto il mondo cambia e anche il mestiere del fotoreporter cambia, e Mario avverte il cambiamento con un pizzico di sofferenza e delusione insieme.
«I cambiamenti tecnologici, in questo caso specifico l’avvento del digitale, hanno reso infinitamente più veloci i tempi e hanno ridotto, per non dire annullato, le distanze. Tutto questo é estremamente importante in un settore come la cronaca, dove la tempestività e la rapidità sono requisiti essenziali. Mentre ero a Timor Est, nel 1999, vedevo che anche i fotografi indonesiani usavano macchine fotografiche digitali per i loro servizi. Soltanto nel 2001 ho abbandonato la vecchia macchina per il nuovo, sollecitato verso questo cambiamento dal grande vantaggio che offre il digitale: la velocità. Infatti anche grazie ai sistemi satellitari è possibile inviare le foto quasi in tempo reale ed evitare tutti gli eventuali problemi tecnici legati allo sviluppo o alla trasmissione.
Tuttavia, resto un sostenitore della bellezza delle foto su carta, che conservano un fascino e una profondità quasi tattile, soprattutto quelle in bianco e nero, che riescono ad esprimere le molteplici sfumature del grigio e delle ombre».
Pur avendo girato il mondo e raccontato i fronti di guerra più caldi dell’epoca Mario raccontava continuamente una delle sue esperienze più particolari della sua vita, datata anno 1958.
«Avevo neanche vent’anni; Angiolillo, il direttore de “Il Tempo”, mi spedì a San Giovanni Rotondo con Ettore Della Giovanna, l’inviato. Voleva immagini a colori per l’inserto domenicale. Partii con la Contax di Angelo Frignani, il capocronista, più una macchina mia. Arrivo davanti alla chiesa di Padre Pio, e i colleghi mi scoraggiano. “Non t’illudere, non combini niente”. Mi rassegno a qualche scatto di colore, la vecchietta che prega, l’ospedale in costruzione. Poi ci ripenso, entro in chiesa, chiedo ai frati di Padre Pio. E quelli: “Ce l’hai davanti”». Una bella fortuna. L’inizio dell’enigma. Qualcuno grida “chi è stato?”. C’è aria di parapiglia, io scappo nel chiostro, imbocco certe scale. Mi trovo di fronte una stanzetta. Dentro c’è Padre Pio. Che un attimo prima stava giù».
Impietrito dalla meraviglia? «Macché. Comincio a scattare con la Contax, in bianco e nero. Lui è in controluce, non faccio in tempo a montare il flash. Due, tre, cinque clic, punto alle mani, fasciate di cuoio nero. Smetto quando mi dice: “Basta con questa macchinetta per fare il caffè”.
Rimetto tutto a posto, ma mi guardo intorno spaurito. “Vai tranquillo, non ti preoccupare”, mi congeda. Aveva ragione? “Sembrava di sì. Non ho altre vie di fuga, mi tocca rientrare in chiesa. Nessuno mi nota. Esco, nessuno mi insegue. Fuori trovo una macchina dei carabinieri. La frittata è fatta, penso. Ma quelli mi offrono un passaggio fino a Foggia. Rientro trionfante in redazione. Invece no. Perché quando vado a sviluppare il rullo, non c’è niente, solo la prima foto in esterno. Eppure, la macchina l’avevo caricata a Roma, la pellicola non poteva essersi sganciata perché sentivo la ricarica, mentre scattavo. Che è successo, non lo so».
Che è rimasto di quell’incontro? «Il fascino, quando gli sfiorai la mano. A casa ho una sua immagine, qualche volta la guardo. Ma capire, no».
Con l’arrivo del Covid Mario De Renzis si era ammalato, era rimasto ricoverato per settimane, avevamo temuto che se ne andasse, e invece aveva resistito anche al Covid della prima ora e si era in parte ripreso. Ormai viveva di ricordi, di malinconia, di sogni che non avrebbe mai più potuto realizzare, ma sorrideva continuamente, e non aveva mai smesso di portarsi la macchina fotografica dietro, ti vedeva, ti abbracciava, poi ti chiedeva di poteri fotografare. Era il modo più semplice per lui per sentirsi ancora vivo. Grazie Mario per tutto l’affetto che ci hai riservato. (giornalistitalia.it)
Pino Nano