Aveva 53 anni. I funerali a Roma. Commosso ricordo del direttore Carlo Verdelli

Addio Angelo Aquaro, vicedirettore di Repubblica

Angelo Aquaro

ROMA – Angelo Aquaro, vicedirettore del quotidiano “la Repubblica”, è morto a Roma all’età di 53 anni. “Il vicedirettore elettrico”, lo ricordano i colleghi del quotidiano diretto da Carlo Verdelli: “Giornalista appassionato e curioso, che per il mestiere nutriva una sorta di amore devoto: generoso fin quasi alla dissipazione di sé”.
Angelo Raffaele Aquaro era nato a Martina Franca, in provincia di Taranto, il 10 agosto 1965. Il primo contratto lo aveva avuto, da praticante, il 1 novembre 1987, alla Gazzetta di Parma. Quindi, aveva completato il periodo di pratica necessario a sostenere l’esame di idoneità professionale, il 13 luglio 1989, transitando per la Rusconi e approdando alla Rcs Periodici. Due parentesi alla Silvio Berlusconi editore, quindi il ritorno in Rcs nella redazione di “Sette”, il magazine del Corriere della Sera, per approdare, il 1° aprile 20101, al Gruppo Espresso per affiancare Laura Gnocchi alla guida del “Venerdì”. Quindi il passaggio alla redazione del quotidiano con la qualifica di caporedattore centrale la promozione a vicedirettore. È stato, tra l’altro, corrispondente dalla Cina e dall’America.
I funerali di Angelo Aquaro saranno celebrati a Roma domani, sabato 13 aprile, alle ore 11 nella chiesa di San Giovanni a Porta Latina, via di Porta Latina 17. La camera ardente è, invece, aperta oggi e domani dalle 8 alle 16 al Biocampus di via Alvaro del Portillo 200.  (giornalistitalia.it)

IL RICORDO DI CARLO VERDELLI
Ciao Angelo, nostro fratello in redazione

Carlo Verdelli

Non riesco a togliermi dalla testa quel messaggio, spedito dal suo telefonino al termine di una domenica dov’era di turno come vicedirettore. Non il testo, che spiegava come era stato risolto un problema e suggeriva alcuni spunti per il giorno dopo.
L’ora, è l’ora dell’invio che mi tormenta: 03.05. Il giorno dopo, alle 7, Angelo aveva appuntamento per gli esami di controllo. Era appena uscito da una lunga lotta con un tumore, che sembrava vinta. Aveva ripreso da poco il suo posto da vicedirettore, rassicurava me e tutti di sentirsi benissimo. Il giornale, questo giornale, era la sua vita e la sua cura. Dopo quel messaggio, alla fine di quella notte, ha resistito fino a martedì.
Poi è rimasto a casa, telefonando di continuo per tranquillizzare me e tutti che aveva soltanto bisogno di riposare un po’, che però era dispiaciuto perché la sua assenza avrebbe costretto i colleghi a dei turni supplementari e che comunque avrebbe mandato avanti le sue cose anche da lì. E che poi si sarebbe ripresentato presto, prestissimo, se ce la faccio già domani, al massimo dopodomani.
Il venerdì di quella stessa settimana, accompagnato in macchina dalla moglie Anna, una collega della sezione Esteri, con lei al volante perché lui si sentiva senza forze, andrà in ospedale, la stessa clinica dove era in cura da quando il male, un anno prima, gli aveva assaltato la colonna vertebrale. L’aveva aggirato sottoponendosi a un autotrapianto di midollo, che doveva garantirgli, se non proprio una guarigione definitiva, almeno un ragionevole periodo di tranquillità. Parola però non compresa nel suo vocabolario esistenziale. Bruciò i tempi e le tappe, si ripresentò ancora acciaccato in via Cristoforo Colombo, ricominciò a macinare pagine e titoli. E più macinava, più riprendeva colore e forze. La Repubblica, la sua cura, la sua vita.
Fino a quella domenica, ha funzionato. Poi, di colpo, persino una macchina da giornalismo come poche, pochissime, ne ho viste all’opera, si è fermata di colpo, per non più ripartire.
Ho avuto la fortuna di conoscere Angelo Aquaro all’inizio del suo sogno. Era poco più di un ragazzo, aveva fatto causa a Sette, il settimanale del Corriere della Sera, perché dopo interminabili stagioni di collaborazioni e di promesse, si rifiutavano di metterlo in regola.
Convinsi l’azienda a onorare il patto, una delle cose di cui vado più orgoglioso. Non tanto per aver sistemato una grana, quanto perché da quel momento consegnavo un giornalista nato al mestiere per cui era stato pensato e progettato. Direi creato, se la fede mi sostenesse.
Ho avuto la fortuna di ritrovare Angelo Aquaro qui, nelle stanze di Repubblica, dove adesso ha lasciato un vuoto più grande e incolmabile del buco nero che l’altroieri ha sgomentato il mondo. I suoi ultimi giorni sono stati un’agonia crudele.
Il corpo prosciugato, i dolori che lo straziavano, un’altalena insensata di pallidissime speranze e vertiginosi strapiombi.
Un giornale è fatto di persone. E le persone di questo giornale hanno passato le pene di Angelo, sono state su quell’altalena con lui, e con lui si sono accasciate quando il vicedirettore Aquaro, ieri alle 13 e 40, si è arreso sfinito, dopo una lotta violenta e insensata, combattuta sul suo povero corpo, senza neanche la possibilità, nemmeno per un guerriero indomabile come lui, di provare a combattere.
Noi tutti sappiamo chi ci siamo persi. Scrivo queste righe perché credo che sia giusto che lo sappiano anche i nostri lettori.
Quel messaggio delle 03.05, notte di domenica e alba di lunedì, non era una prova di tenacia.
Era un atto d’amore.
Per il giornalismo, per Repubblica e per voi che la scegliete. (la repubblica)

Carlo Verdelli
direttore de la Repubblica

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