ROMA – Aveva compiuto 90 anni lo scorso gennaio e, pur costretto negli ultimi tempi a una vita appartata, era rimasto per tutti un venerabile maestro, un punto di riferimento. Alberto Arbasino è morto “serenamente” dopo una lunga malattia, come ha annunciato la famiglia a “la Repubblica”, di cui è stato una delle firme più prestigiose fin dalla nascita del quotidiano.
Nato a Voghera il 22 gennaio 1930, laureato in diritto internazionale all’Università di Milano, Arbasino è sempre vissuto a Roma da quando si era trasferito nel 1957, l’anno in cui aveva esordito come scrittore con alcuni racconti, incoraggiato da Italo Calvino. Per i suoi 80 anni gli era stata dedicata, nel 2010, un’edizione critica nei Meridiani Mondadori.
Legato alla neoavanguardia, al Gruppo 63 che contestava, anche con impazienza e ironia, tutta una certa cultura di allora e i maestri che aveva creato, Arbasino, nella sua critica alla cultura italiana, sempre elaborata con un sorriso sotto i baffi, ha messo in risalto il provincialismo, come hanno dimostrato anche le sue collaborazioni e recensioni di mostre e spettacoli da tutta Europa per Repubblica.
Non a caso i suoi ultimi libri a questo rimandano sin dai titoli: “America amore” o “Pensieri selvaggi a Buenos Aires”, seguiti a “La vita bassa” in cui una decina di anni fa (2008) prendeva, con un gioco di parole, una moda quale metafora di una situazione generale che non può non ricordare il suo celebre, polemico articolo degli anni ’60 su Il Giorno, in cui invitava i letterati a fare una “gita a Chiasso”, ovvero oltre confine, per allargare il proprio sguardo e scoprire cosa si producesse nel resto d’Europa.
Fedele a quell’invito, Arbasino ha sempre avuto una vita cosmopolita, frequentando il bel mondo intellettuale internazionale, i teatri, le sale da concerto e anche i salotti più importanti, riferendone sui giornali.
I suoi primi scritti sono usciti su “Paragone” e “Il Mondo” e ha sempre collaborato a riviste e giornali, da Il Giorno a L’Espresso. Le caratteristiche della sua prosa e del suo riferire o narrare sono una certa leggerezza e frivolezza anche esibite, ma sempre temprate da un’acuta intelligenza, da un senso dell’umorismo e da uno sguardo erudito che ha lo scetticismo e il disincanto di chi si rende conto o almeno tende a dimostrare che il nuovo non è mai nuovo davvero, a trovare sempre un riferimento o un paragone col passato.
C’è quindi una mole quasi ipertrofica di citazioni colte, di associazioni tra arti e autori, nei testi di Arbasino, che possono anche sembrare una sorta di muro di difesa tra sé e la realtà, che la sua vena ironica assieme esalta e mimetizza, facendosi lente d’ingrandimento per un’osservazione che non sia superficiale e mostri in trasparenza un senso del tragico.
Non per nulla le sue narrazioni sono come in presa diretta e sono state usate anche come documenti, testimonianze di un dato momento storico e di costume. Sia i testi giornalistici che quelli più narrativi, a cominciare dal celebre (e per certi versi anche generazionale) “Fratelli d’Italia”. E lui è tornato su quei testi, invece, negli anni, aggiustandoli e modificandoli, come a correggere la possibilità che una visione a distanza alteri quella originale.
“Ogni libro nuovo, veramente moderno, di quest’epoca (di quale epoca?) sarà così profondamente ambiguo, cioè polimorfo, così com’è ambigua e polimorfa l’epoca, da raccontare in realtà alcune storie sempre fingendo di raccontarne tutt’altre, anche molto diverse?”, scriveva proprio in “Fratelli d’Italia” uscito nel fatidico ’63, che gli ha dato notorietà, quando aveva già pubblicato i racconti d’esordio di “Le piccole vacanze” (1957) e il romanzo “L’anonimo lombardo” (1959).
Nel 1960 era uscito a puntate su Il Mondo “La bella di Lodi”, che l’anno successivo fu adattato per il cinema insieme a Mario Missiroli. Nel 1967 aveva iniziato una collaborazione con il Corriere della Sera, terminata poi con la direzione di Giovanni Spadolini.
Arbasino è stato anche deputato al Parlamento come indipendente per il Partito Repubblicano Italiano fra il 1983 e il 1987.
“Nell’idea di romanzo di Arbasino le citazioni sostituiscono l’intreccio o l’avventura del romanzo tradizionale: sono altre avventure verso altri mondi noti o meno noti o ignoti”, ha del resto scritto Raffaele Manica nell’introduzione al Meridiano. Mentre lo stesso Arbasino aveva detto detto: “Sento dire spesso che sarei uno scrittore barocco, ma la definizione non mi soddisfa. Mi considero piuttosto uno scrittore espressionista: l’espressionismo non rifugge dall’effetto violentemente sgradevole, mentre il barocco lo fa”. (ansa)
“Venerabile maestro”? Perché, al povero Arbasino? Si sa, fu Alberto Arbasino a vergare la citatissima definizione del mondo culturale nostrano: «In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di “brillante promessa” a quella di “solito stronzo”. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di “venerato maestro”».
N.b. “venerato maestro”, non “venerabile maestro”.
Chi voglia, può recuperare in rete la bella intervista di Malcom Pagani sull’Espresso “Arbasino: i miei magnifici 81 anni”. Poi, eventualmente, i libri.