ROMA – Il regista Elia Kazan paragonava la condizione del critico a quella dell’“eunuco nell’harem che passa il suo tempo a contemplare quel che gli è precluso e proibito”: è la definizione che amava citare Morando Morandini, pensando alla sua passione di una vita, il cinema. Il decano dei critici italiani è morto in ospedale a Milano, la città dove era nato nel 1924 e che nel 2014 lo aveva premiato con l’Ambrogino d’oro.
Morandini è diventato popolare grazie al Dizionario dei film e delle serie tv che porta il suo nome, edito da Zanichelli dal 1999 (e giunto nel 2015 alla 17/a edizione), curato da lui stesso con la moglie Laura (fino alla sua scomparsa) e poi con la figlia Luisa, anche lei critico cinematografico. Ogni anno l’opera è stata aggiornata e Morandini ha continuato ad assistere quotidianamente alla proiezione delle novità cinematografiche, rivedendo e ripensando i suoi giudizi su film già recensiti.
Nel mondo del cinema e della cultura il nome di Morandini è però sinonimo di qualità, di impegno e di una visione personale a partire dagli anni ‘50, quando scrive per il quotidiano “La Notte” (dal 1952 al 1961) che dedica molto spazio agli spettacoli e crea la pagina “Dove si va stasera”. È su quel quotidiano che comincia a usare, accanto alla critica, una sintesi in stelline, cui aggiungerà poi i pallini, quale sintesi del successo di pubblico. Il suo ruolo cresce poi e acquista una posizione centrale nel panorama della nostra critica cinematografica col suo arrivo a “Il Giorno” (dal 1965 al 1998) che punta proprio su cultura e spettacolo, svecchiando di colpo un certo stile da terza pagina.
“Sono un razionale emotivo”, diceva di sé Morandini, un ossimoro che traspare nelle schede del dizionario: sintesi puntuali, precise ma ricche di argute e taglienti osservazioni, come in tutta la sua attività di una vita. Nel 1995 ha pubblicato “Non sono che un critico”, libro autobiografico di riflessioni sul proprio lavoro e sul ruolo del critico in cui viene messa a fuoco l’idea che la critica sia una forma di scrittura in cui il soggetto che scrive scopre, attraverso la visione del film e le emozioni che esso suscita, innanzitutto se stesso, la propria sensibilità di spettatore e di essere umano.
In una recente intervista aveva confessato: “Per dirla secca, sono nato al cinema con i film francesi degli ultimi anni ‘30. I miei idoli erano Jean Gabin, Arletty, Michèle Morgan. E Gary Cooper tra gli attori americani. Tra le attrici la Davis, la Hepburn, Carole Lombard. E Dorothy Lamour di cui mi innamorai col tramite di John Ford in Uragano (1937). Ford e Hawks erano i miei director preferiti, ma ricordo che mi lasciai incantare da Winterset (Sotto i ponti di New York, 1936) di Al Santell e rimasi sconvolto da Delitto senza passione (1934) di Ben Hecht”.
E ancora: “Sono andato fuori dai sentieri battuti sin dall’inizio, grazie a una passione precoce per il cinema, se a 12 anni leggevo sul Corriere le critiche di Filippo Sacchi, per passare poi al settimanale ‘Film’ di Doletti e approdare alla rivista ‘Cinema’ al liceo”.
Morando Morandini ha firmato diverse monografie su celebri registi (S. M. Ejzentejn, B. Bertolucci, J. Huston, ecc.), e con G. Fofi e G. Volpi è stato coautore di una Storia del cinema (4 voll., 1988). Nel 1998 ha ricevuto il premio Ennio Flaiano e l’anno scorso l’Ambrogino d’oro. Una scelta accompagnata anche da polemiche, perché il figlio del critico, Paolo Morandini, fu uno dei terroristi del “commando” che nel 1980 assassinò il giornalista Walter Tobagi.
“Non si può rispondere per eventuali colpe dei figli”, replicò allora il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Quanto alla lettera sul caso Pinelli (nota anche come “manifesto contro il commissario Calabresi”) che il critico sottoscrisse nel 1971 insieme a centinaia di politici e intellettuali, “lo stesso Morandini ha riconosciuto che era sbagliata”, sottolineò Pisapia. (Ansa)
Il decano dei critici italiani aveva 91 anni. Per oltre 30 firma di punta de Il Giorno